Lavoro

Licenziamento, videoriprese “difensive” non utilizzabili senza un “fondato sospetto”

Secondo la Cassazione, ordinanza n. 10822 depositata oggi, per aggirare lo Statuto dei lavoratori serve un fondato sospetto. Respinto il ricorso, contro la reintegra, di una griffe che non aveva informato correttamente i lavoratori

di Francesco Machina Grifeo

In una causa di licenziamento per presunta sottrazione di beni aziendali, non sono utilizzabili le riprese audiovisive realizzate in mancanza di una corretta informazione da parte dell’azienda. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con l’ordinanza n. 10822 depositata oggi, respingendo il ricorso di una nota griffe di moda italiana. E chiarendo che per aggirare il sistema di garanzie stabilito dallo Statuto dei lavoratori serve il “fondato sospetto” della commissione di un illecito, non essendo sufficiente il mero convincimento soggettivo del collega.

Confermata dunque la decisione della Corte d’Appello di Milano che aveva sancito l’illegittimità del licenziamento di una dipendente, responsabile dello showroom, per la mancanza di prove legittimamente acquisite in ordine alla sottrazione di alcuni prodotti. Le immagini registrate dagli impianti audiovisivi erano infatti state realizzate senza il rispetto della normativa vigente in materia. E l’azienda era stata condannata alla reintegra e alla corresponsione di un’indennità risarcitoria (oltre interessi, rivalutazione e spese di lite).

La Sezione Lavoro ha bocciato le doglianze della società che aveva sostenuto la legittimità dei controlli telematici, affermando che mancava “il presupposto del fondato sospetto per poter invocare la inapplicabilità dell’art. 4 (Statuto dei lavoratori, ndr) e poter la società sottrarsi, quindi, agli adempimenti richiesti da tale disposto”. Nel caso specifico, secondo quanto ricostruito nelle fasi di merito, sussisteva infatti soltanto “un puro convincimento soggettivo” del collega il quale, nel visionare le riprese “sarebbe rimasto incuriosito e sarebbe andato a verificare”.

La legittimità dei controlli cd. difensivi in senso stretto, si legge nella decisione, presuppone, infatti, il “fondato sospetto” del datore di lavoro circa comportamenti illeciti di uno o più lavoratori. Ne consegue, continua la Corte, che spetta al datore l’onere di allegare, prima, e di provare, poi, le specifiche circostanze che l’hanno indotto ad attivare il controllo tecnologico “ex post”, sia perché solo il predetto sospetto consente l’azione datoriale fuori del perimetro di applicazione diretta dell’art. 4 st. lav., sia perché, in via generale, incombe sul datore, ex art. 5 l. n. 604 del 1966, la dimostrazione del complesso degli elementi che giustificano il licenziamento (Cass. n. 118168/2023).

Quanto “all’attività di indagine” svolta autonomamente dall’accusatore che dopo aver visionato le riprese e aver riscontrato per la seconda volta la presenza della collega nello showroom, approfittando dell’assenza per la pausa pranzo, era entrato nel suo ufficio per cercare tracce di eventuali illeciti, la Cassazione rileva che la Corte di merito ha già ritenuto profilarsi (in linea con il giudice di primo grado) “la chiara violazione della disciplina a tutela della riservatezza e della dignità della lavoratrice”, attraverso “una illecita perquisizione su un bene personale - cioè la borsa - apparentemente appartenente alla collega”.

Mentre, con riferimento alle riprese degli impianti audiovisivi, correttamente ricondotti da entrambi i giudici nell’ambito dei controlli difensivi del patrimonio aziendale perché rivolti indistintamente a tutto il personale, la Corte di II grado ne ha ritenuto, condividendo, anche sul punto, l’impostazione del Tribunale, la carenza di prova circa l’adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003 n. 196. Concludendo per l’inutilizzabilità delle immagini provenienti dagli impianti, nonché del materiale scaturente da tali riprese.

Correttamente, conclude la Cassazione, la Corte territoriale ha, quindi, affermato “il mancato assolvimento dell’onere della prova da parte della datrice di lavoro circa la dimostrazione degli addebiti idonei ad integrare la giusta causa di recesso e tale conclusione è sottratta al sindacato di legittimità”.

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