Penale

Divieto di arresto in flagranza solo se la malattia mentale è manifesta

Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 3760 depositata oggi, affermando che la patologia emersa successivamente non ha effetti sulla convalida dell’arresto da parte del Gip

di Francesco Machina Grifeo

Il divieto di arresto in flagranza della persona incapace di intendere e volere è previsto unicamente nei casi in cui tale condizione si manifesti chiaramente agli agenti operanti. Se invece emerge solo successivamente, grazie all’acquisizione di documentazione medica o altre informazioni, il Gip non può tenerne conto in sede di convalida. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 3760 depositata oggi, con cui ha dichiarato inammissibile il ricorso di un uomo ristretto in carcere per maltrattamenti in famiglia e lesioni aggravate.

Confermata dunque l’ordinanza di convalida del Gip di cui l’avvocato aveva chiesto l’annullamento per la mancata valutazione del “difetto di imputabilità derivante dalle gravi patologie psichiatriche” dell’imputato che è “palesemente incapace di intendere e volere”. Aggiungendo che il medesimo giudice, in un diverso procedimento penale aveva disposto nei sui confronti la misura di sicurezza della libertà vigilata con obbligo di cura. Ed insistendo sul fatto che sia i Carabinieri, che il Commissariato di Polizia di Torre del Greco sarebbero stati a conoscenza della “grave compromissione psichiatrica che affligge il ricorrente”.

Per la VI Sezione penale il motivo è infondato. “Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità – si legge nella decisione -, l’arresto in flagranza di un soggetto che versi in stato di incapacità di intendere e di volere è illegittimo, perché operato in violazione del divieto posto dall’art. 385, quando tale stato si manifesti chiaramente all’agente operante al momento dell’intervento e cioè sia immediatamente rilevabile da parte degli operanti sulla base di una ragionevole valutazione delle circostanze concrete; in carenza di tale condizione manifesta e, pertanto, ove la non imputabilità si palesi solo in sede di convalida dell’arresto, sulla base della documentazione sanitaria acquisita agli atti e/o dell’interrogatorio svolto, non è consentito al giudice della convalida inserire nello schema valutativo del controllo dell’attività di polizia giudiziaria, conoscenze acquisite aliunde o comunque diverse da quelle poste a base dell’arresto e del fermo” (n. 39894/2024).

E dagli atti, prosegue la Corte, risulta che il “verbale di arresto non evidenzia problematiche manifestamente riconducibili a patologia di natura psichiatrica, bensì solo una forte e violenta reattività del ricorrente, oltre che l’uso di sostanze stupefacenti da parte di quest’ultimo”. Il dubbio circa possibili cause di incapacità è, dunque, emerso soltanto in sede di udienza di convalida. Correttamente dunque il giudice ha escluso l’applicabilità del divieto di arresto considerati gli “elementi conosciuti dagli operanti al momento dell’arresto”. Ed ha disposto una perizia per accertare la capacità di intendere e di volere del ricorrente al momento del fatto.

Ai fini dell’applicazione degli articoli 88 e 89 cod. pen. sul vizio (totale o parziale) di mente, la Cassazione spiega che non hanno alcun rilievo eventuali precedenti perizie in quanto, l’infermità mentale “va accertata in relazione alla commissione di ciascun reato e, conseguentemente, non può essere ritenuta sulla sola base del precedente riconoscimento del vizio di mente in altro procedimento”.

Come stabilito dalle Sezioni Unite (sentenza “Raso”) è necessario che tra il disturbo mentale ed il fatto di reato sussista un nesso eziologico, che consenta di ritenere il secondo causalmente determinato dal primo (n. 9163/2005). Per cui l’accertamento in un determinato procedimento, “non ha di per sé rilevanza cogente in altro procedimento a carico del medesimo imputato, sia pure per fatti commessi nel medesimo periodo temporale”.

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