Comunitario e Internazionale

E-commerce: no a obblighi supplementari a fornitori di servizi stabiliti in altri Stati Ue

Le grandi società di servizi di intermediazione e di motori on line hanno ottenuto ragione dalla Corte Ue contro gli obblighi imposti in Italia sotto il controllo di Agcom

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di Paola Rossi

La Corte di giustizia Ue ha chiarito uno degli aspetti più complessi della regolamentazione dei servizi di intermediazione e di motori di ricerca online con le decisioni sulle cause riunite C-662/22 e C-667/22 , sulla causa C- 663/22 , sulle cause riunite C-664/22 e C-666/22 , sulla causa C-665/22 . L’affermazione che emerge è che in materia di commercio elettronico i Paesi della Ue non possono imporre obblighi supplementari a un fornitore di servizi online che sia stabilito in un altro Stato membro.

La legge italiana 
In Italia, i fornitori di servizi di intermediazione e di motori di ricerca online, quali Airbnb, Expedia, Google, Amazon e Vacation Rentals, in forza di disposizioni nazionali sono soggetti a determinati obblighi. Tali disposizioni sono state adottate nel 2020 e nel 2021, al fine dichiarato di garantire l’adeguata ed efficace applicazione del regolamento che promuove equità e trasparenza per gli utenti commerciali dei servizi di intermediazione online.
I fornitori di tali servizi devono, in particolare, iscriversi in un registro tenuto da un’autorità amministrativa (Agcom) e trasmettere ad essa periodicamente un documento sulla loro situazione economica, comunicando una serie di informazioni dettagliate. Inoltre, tali operatori sono tenuti aversare ad Agcom un contributo economico e in caso di inadempimento di tali obblighi sono passibili di sanzioni.

La vicenda a quo
Le note società coinvolte da tale regime su cui si è espressa la Cgue hanno contestato tali obblighi dinanzi al giudice italiano, sostenendo che fossero contrari al diritto Ue. Tutte queste società – salvo Expedia che ha sede negli Stati-Uniti – invocano in particolare il principio della libera prestazione dei servizi e sostengono di essere soggette principalmente alla normativa dello Stato membro in cui sono stabilite (nei casi in questione, Irlanda e Lussemburgo). Ritenevano le società che non si poteva imporre loro altri requisiti per l’accesso a un’attività di servizi della società dell’informazione.

La risposta della Cgue
Per la Cgue il diritto dell’Unione vieta misure come quelle previste dall’Italia. Infatti, secondo la direttiva sul commercio elettronico, spetta allo Stato membro di origine del fornitore di servizi della società dell’informazione disciplinare l’erogazione di tali prestazioni.
Gli Stati membri di destinazione sono tenuti al rispetto del principio di reciproco riconoscimento, e non devono, salvo eccezioni, limitare la libera prestazione di tali servizi. L’Italia non può perciò imporre a fornitori di tali servizi stabiliti in altri Stati membri obblighi supplementari che, pur essendo richiesti per l’esercizio di detti servizi nel territorio nazionale, non sono previsti nello Stato membro in cui gli operatori sono stabiliti.

Non scatta l’eccezione
La Corte precisa che tali obblighi non rientrano tra le eccezioni consentite dalla direttiva sul commercio elettronico. Da un lato sarà il giudice italiano a verificare dall’altro lato, gli obblighi sub iudice non sono necessari al fine di tutelare uno degli obiettivi di interesse generale previsti dalla direttiva in materia. Inoltre, l’introduzione di tali obblighi non è giustificata dalla finalità, invocata dalle autorità italiane, di garantire l’adeguata ed efficace applicazione del diritto Ue.

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