Lavoro

Escluso il licenziamento del dipendente che boccia la propria azienda sul web

La Cassazione, sentenza n. 5331/2025, ha accolto il ricorso di un lavoratore licenziato per aver scritto su una piattaforma a proposito della azienda “…perdete ogni speranza…”, recensendola con una stella su cinque

di Francesco Machina Grifeo

Più spazio al diritto di critica dei dipendenti. Non si può infatti pretendere che ogni opinione espressa nei confronti della azienda “sia esplicitamente costruttiva” e tale da provocare “un approccio autocritico ed una ragionata revisione […] delle politiche di gestione aziendale”. Vige invece il limite di esprimere le critiche con “toni e parole non volgari e non infamanti”, correlandole ad un bene meritevole di tutela, come sono per esempio le “condizioni dignitose di lavoro”. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 5331/2025, accogliendo il ricorso di un lavoratore licenziato per aver pubblicato sul profilo creato dalla azienda sulla piattaforma “Google My Business”, un post dal seguente contenuto “…perdete ogni speranza…”, dando poi come votazione una stella su cinque.

Secondo la Corte di appello di Ancona che aveva validato il licenziamento, andava adeguatamente considerata la “potenzialità lesiva” della condotta consistente in una “consapevole e volontaria denigrazione dell’azienda” attraverso un mezzo in grado di raggiungere un “numero elevatissimo di persone e di influenzarne negativamente l’orientamento”. Tale potenzialità lesiva, secondo i giudici di secondo grado, era di per sé idonea ad elidere il vincolo fiduciario e a rendere proporzionata la massima sanzione espulsiva.

La Sezione lavoro ricorda che la Costituzione, all’articolo 21, riconosce a tutti il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione; e l’articolo 10 della Cedu ribadisce come “Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione”. Mentre l’articolo 1 dello Statuto dei lavoratori riafferma “il diritto dei lavoratori, nei luoghi in cui prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero”. La giurisprudenza ha poi individuato i limiti al legittimo esercizio del diritto di critica nella “continenza formale” e nella “continenza sostanziale”, legati rispettivamente alla correttezza e misura del linguaggio adoperato e alla veridicità dei fatti, intesa in senso non assoluto ma soggettivo, nonché nel requisito di pertinenza, e cioè la rispondenza della critica ad un interesse meritevole di tutela.

La sentenza impugnata invece ha ravvisato un eccesso, rispetto al limite della continenza formale, nell’espressione “perdete ogni speranza” ed ha rilevato che l’elemento fiduciario impone che qualsiasi esternazione del lavoratore “debba essere finalizzata esclusivamente a sollecitare un approccio autocritico ed una ragionata revisione, da parte della datrice di lavoro, delle adottate politiche di gestione aziendale”. Concludendo che “i toni pungenti e le immagini chiaramente evocative di contesti oltremodo penalizzanti (quale indiscutibilmente è l’Inferno di dantesca memoria)” fossero sintomatici di “un intento denigratorio e di rappresaglia fine a sé stesso”.

Dunque, argomenta la Cassazione, a venire in rilievo non è la “continenza sostanziale”, vale a dire la veridicità anche solo putativa ma quella “formale”, e cioè il tenore delle espressioni e la relativa pertinenza. E allora, “occorre considerare che la critica è per definizione espressione di dissenso, di disapprovazione, di giudizi negativi sull’altrui operato e per sua stessa conformazione è astrattamente idonea a mettere il destinatario, che sappia ascoltare, in condizione di interrogarsi sulla veridicità o meno dei rilievi mossi e sulla eventuale possibilità di modificare le condotte espressamente o implicitamente censurate”. La critica, dunque, può anche consistere “in uno sfogo, nella espressione di una disillusione o di uno sconforto perché anche tali modalità sono teoricamente idonee ad innescare l’altrui ripensamento”. E ancora: “Non è requisito immanente della critica che essa sia esplicitamente costruttiva, che evidenzi expressis verbis gli errori o i difetti altrui sì da provocare “un approccio autocritico ed una ragionata revisione […] delle politiche di gestione aziendale”, purché sia espressa con toni e parole non volgari e non infamanti e sia correlata ad un bene meritevole di tutela, come certamente sono le condizioni dignitose di lavoro”.

“Né – conclude la Corte -, in linea generale, la volgarità o l’infamia delle espressioni adoperate può essere misurata solo sulle immagini che esse evocano, specie ove si tratti di citazioni tratte dalla letteratura, come in tal caso, oppure dal patrimonio storico e culturale che accomuna le persone, dovendo ogni frase essere letta cercando di cogliere il significato concreto della critica espressa, al di là della citazione o della assimilazione a cui si fa ricorso, risultando altrimenti la latitudine del diritto in parola dipendente da fattori del tutto estranei alla fattispecie concreta e alla volontà dell’autore della critica”.

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