Penale

Facebook, diffamazione aggravata se il “post” o il “commento” lede la reputazione altrui

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di Andrea Alberto Moramarco

Pubblicare un post offensivo sul proprio profilo Facebook integra il reato di diffamazione aggravata, in quanto l'utilizzo del social network consente di pubblicizzare e diffondere l'espressione denigratoria tra un gruppo di persone apprezzabile per composizione numerica. E il reato scatta anche nei confronti di chi semplicemente pubblica un commento della stessa portata offensiva al post diffamatorio, poiché in tal modo si determina una maggior diminuzione della reputazione della persona offesa nella considerazione dei consociati. Questo è quanto si desume dalla sentenza del Tribunale di Campobasso 396/2017.

Il caso - Principale protagonista della vicenda è un uomo chiamato in qualità di teste a comparire dinanzi al Tribunale di Teramo in un procedimento penale. Era accaduto che il giudice del dibattimento era stato designato dal Presidente del Tribunale a svolgere funzioni di Presidente dell'Ufficio Centrale Elettorale, sicché per ben due volte l'udienza nella quale il teste era chiamato a comparire veniva differita. Alla nuova udienza, tuttavia, l'uomo decideva di non presentarsi, non adducendo alcuna giustificazione nonostante avesse regolarmente ricevuto la notifica dell'intimazione a comparire. Di conseguenza, il giudice lo condannava al versamento della somma di 250 euro in favore della cassa delle ammende e ne disponeva l'accompagnamento coattivo per l'udienza successiva. Dopo aver finalmente reso la sua testimonianza, l'uomo non adduceva alcuna giustificazione in merito alla sua assenza, sicché il giudice confermava la sanzione pecuniaria.
Terminata la vicenda, il teste pubblicava sulla bacheca del proprio profilo Facebook un suo personale riassunto di quanto accaduto con tanto di insulti nei confronti del giudice e di tutta la categoria dei magistrati, ricevendo più di cento “Mi piace” da parte di “amici virtuali” come segno di apprezzamento, nonché diversi commenti, specie da parte di altre due persone, offensivi e lesivi della reputazione della persona del giudice. Di qui il processo a carico dei tre per il reato di diffamazione aggravata.

La diffamazione - Il Tribunale, una volta accertata la riferibilità soggettiva dei profili in questione agli imputati, non può far altro che dichiarare la loro responsabilità penale per il reato di cui all'articolo 595 c.p., aggravato dall'aver commesso il fatto tramite internet e, solo per il teste, per aver offeso anche il corpo giudiziario, come previsto rispettivamente dai commi 3 e 4 della norma penale. Ebbene, il giudice ricorda come ormai pacificamente in giurisprudenza si ritiene che «la condotta di postare un commento sulla bacheca Facebook realizza la pubblicizzazione e la diffusione di esso, per la idoneità del mezzo realizzato, a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone», sicché è configurabile il reato di diffamazione qualora lo stesso commento sia offensivo o lesivo della reputazione di taluno. Nel caso di specie, afferma il Tribunale, è certa la riferibilità delle espressioni denigratorie al giudice del processo nel quale l'autore del post era chiamato a testimoniare.

Il commento ha la stessa portata lesiva del post - In particolare, poi, quanto alla posizione degli due imputati che si sono “limitati” a commentare il post del teste, il giudice ricorda che «la reputazione di una persona che per taluni aspetti sia già stata compromessa può divenire oggetto di ulteriori illecite lesioni in quanto elementi diffamatori aggiunti possono comportare una maggior diminuzione della reputazione della nella considerazione dei consociati». In sostanza, chiosa il giudice, nulla cambia sul piano dell'offesa al bene giuridico tutelato se l'espressione diffamatoria sia contenuta nel post principale o nei commenti ad esso sottostante: la nitidezza, la volgarità e la disinvoltura delle frasi utilizzate da tutti gli imputati nell'esprimere le proprie considerazioni nei confronti del giudice e della sua categoria professionale, nonché la pubblicazione delle stesse frasi sul noto social network, con ampia portata diffusiva, sono elementi che confermano la volontà degli stessi imputati di «denigrare agli occhi dell'intera platea virtuale di utenti Facebook la reputazione del magistrato».

Tribunale di Campobasso - Sezione penale - Sentenza 2 ottobre 2017 n. 396

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