Lavoro

Fine del lavoro per malattia, le ferie non godute vanno pagate

La Cassazione, sentenza n. 14083 depositata oggi, afferma che il datore non si libera del suo obbligo se ha genericamente invitato il dipendente a fruire del periodo di riposo prima della cessazione del rapporto

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di Francesco Machina Grifeo

Nel pubblico impiego privatizzato, “il dipendente non perde il diritto alle ferie ed alla corrispondente indennità sostitutiva alla cessazione del rapporto di lavoro, ove tale cessazione sia avvenuta per malattia che abbia impedito l’effettivo godimento del periodo di congedo ancora spettante”. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 14083 depositata oggi, affermando un principio di diritto, e accogliendo con rinvio il ricorso del lavoratore.

Il caso era quello di un medico pediatra che aveva chiesto al Tribunale di Agrigento di condannare la ASP a pagargli oltre 41mila euro a titolo di indennità sostitutiva per 178 giornate di ferie non godute tra il 1998 e il 2007. Il dipendente deduceva di essere stato collocato a riposo dal 1° febbraio 2017 per inabilità permanente al lavoro. Sia in primo che in secondo grado però i giudici di merito gli avevano dato torto.

Di diverso avviso la Sezione lavoro che, con un secondo principio di diritto, afferma: “nel pubblico impiego privatizzato, il datore di lavoro ha l’onere di dimostrare di avere esercitato la sua capacità organizzativa in modo che il lavoratore godesse effettivamente del periodo di congedo e, quindi, di averlo inutilmente invitato a usufruirne, con espresso avviso della perdita, in caso diverso, del diritto alle dette ferie e alla indennità sostitutiva; pertanto, non è idonea a fare ritenere assolto tale onere la comunicazione con la quale la P.A. chieda al dipendente di consumare siffatte ferie genericamente prima della cessazione del rapporto di impiego e non entro una data specificamente indicata, senza riportare l’avviso menzionato e subordinando, comunque, l’utilizzo del congedo in questione alle sue esigenze organizzative”.

Così invece era accaduto nel caso specifico, dove, il datore di lavoro riteneva, e le corti di merito gli hanno dato ragione, di averlo messo nelle condizioni di fruire delle ferie a seguito di una comunicazione del giugno 2013 con la quale il direttore dell’UOC di Pediatria disponeva che egli godesse di sei giorni di ferie ogni mese in modo da usufruirne prima del collocamento a riposo “compatibilmente con le esigenze di servizio e con le proprie esigenze”.

Ebbene, per la Suprema corte tale comunicazione “non è idonea ad escludere il diritto del ricorrente, in quanto subordina il godimento delle dette ferie ‘compatibilmente con le esigenze di servizio e con le proprie esigenze’“. “Ciò significa – prosegue la decisione - che non si tratta di un’intimazione perentoria, ma che tale dichiarazione antepone l’interesse aziendale a quello del lavoratore, senza avvisarlo che, in caso di mancato godimento, le ferie saranno perdute e senza fissare un termine univoco e definito, diverso da quello, ovvio, della cessazione del rapporto di lavoro”.

Soprattutto, la corte territoriale ha errato laddove ha affermato che l’onere di provare l’assenza di esigenze di servizio idonee a giustificare la non fruizione del congedo “gravava ormai sul dipendente, dovendo comunque essere sempre il datore di lavoro a dimostrare di avere fatto tutto il possibile affinché il lavoratore usufruisse del riposo al quale aveva diritto”.

Inoltre, il rapporto di lavoro era cessato per causa non imputabile al ricorrente e diversa dal raggiungimento dell’età massima di impiego, e cioè una malattia che lo ha reso del tutto inabile al lavoro. E allora va ribadito che il divieto di monetizzazione “opera solo nel caso in cui il dipendente rinunci di sua volontà al godimento delle ferie, ricorrendo, in caso contrario, la violazione degli artt. 32 e 36 Cost.”. In questo senso si è espressa anche la Corte di Giustizia dell’Unione europea (nella causa C-341/15). E la Corte costituzionale, sentenza n. 95/2016, ha stabilito che la repressione del ricorso incontrollato alla monetizzazione delle ferie non godute non si applica alle ipotesi di malattia, nelle quali non può giocare in alcun modo la (mancanza di) volontà del lavoratore.

Infine, il Consiglio di Stato ha stabilito che ‹‹va riconosciuto al dipendente il diritto alla retribuzione del congedo ordinario non usufruito e di cui avrebbe potuto legittimamente fruire se non fosse intervenuta la malattia protrattasi senza soluzione di continuità fino alla cessazione del rapporto di lavoro, vale a dire un evento di fatto a lui non imputabile che ha reso impossibile la fruizione delle ferie già maturate e di quelle che via via andavano maturando man mano che perdurava lo stato di malattia›› (Cds, Sezione III, 2 novembre 2023, n. 9417).

Nel caso concreto, è accertato e non contestato che il ritiro dal lavoro del ricorrente “sia avvenuto per causa a lui non imputabile” (malattia che lo ha reso invalido al lavoro) e prima della fine del periodo massimo indicato dal datore di lavoro per godere delle ferie, ossia il termine del rapporto di lavoro (chiaramente, per causa dipendente dalla volontà del lavoratore).

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