Gli Stati devono rendere effettivo il diritto dei nonni ad avere relazioni con i nipoti
Diritto di visita dei nonni garantito da Strasburgo. Con la sentenza di condanna all'Italia, depositata il 20 gennaio 2015 (ricorso n. 107/10), la Corte europea dei diritti dell'uomo ha stabilito, senza possibilità di fraintendimenti, che non solo i nonni hanno diritto a rapporti stabili con i nipoti, ma anche che una lontananza prolungata e imposta nei rapporti tra ascendenti e nipoti determina un sicuro danno morale sui nonni e gravi ripercussioni su tutte le persone coinvolte.
La questione sottoposta alla Cedu - Va sottolineato che la Corte non ha rilevato alcuna contrarietà della legislazione italiana con la Convenzione europea, quanto piuttosto l'inerzia delle autorità nazionali e la contraddittorietà di alcune scelte del tribunale competente che hanno impedito la realizzazione di un diritto riconosciuto dalla Convenzione.
D'altra parte, va ricordato che l'ordinamento italiano, proprio per assicurare una maggiore tutela ai diritti degli ascendenti, è stato modificato con il Dlgs 28 dicembre 2013 n. 154, con la conseguenza che l'articolo 317-bis del codice civile prevede oggi che «gli ascendenti hanno diritto di mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni. L'ascendente al quale è impedito l'esercizio di tale diritto può ricorrere al giudice del luogo di residenza abituale del minore affinché siano adottati i provvedimenti più idonei nell'esclusivo interesse del minore».
Tuttavia, proprio dalla pronuncia della Corte europea, che pure non riguardava il Dlgs 154/2013, risulta chiaro che non basta adottare leggi o provvedere a riconoscere formalmente diritti. Ciò che conta è che le misure vengano effettivamente applicate e che non ci siano provvedimenti contradditori, che vanno sicuramente a danno dei minori e di tutti i familiari. Questo vuol dire che non basta assicurare sul piano formale il diritto per gli ascendenti di ricorrere al giudice se i provvedimenti non vengono poi applicati ed eseguiti in modo effettivo, lasciando gli ascendenti in un limbo interminabile.
La vicenda all'origine della pronuncia - A rivolgersi alla Corte europea sono stati due nonni, di nazionalità italiana. Dal momento della separazione del figlio, i ricorrenti non avevano più potuto incontrare la nipote, con la quale avevano avuto sempre, in passato, contatti stabili, per decisione della madre della bimba.
In un primo tempo il diritto dei nonni era stato compromesso perché, malgrado una sentenza del tribunale di Torino al quale i due anziani si erano rivolti sin dal 2002, la pronuncia non era stata eseguita a causa del comportamento dei servizi sociali, che erano stati inerti. Dopo qualche tempo, nonostante l'assoluzione del padre dall'accusa di abusi sessuali, i giudici nazionali avevano disposto il divieto di visita condividendo le posizioni degli psicologi e dei servizi sociali secondo i quali la bimba, nel vedere i nonni, avrebbe potuto essere traumatizzata in quanto li riconduceva alla figura del padre che, però, era stato assolto perché il fatto non sussiste. Di qui la scelta dei nonni di ricorrere a Strasburgo per provare a ottenere non solo un accertamento della violazione e un indennizzo, ma soprattutto un riconoscimento del proprio diritto che possa poi incidere sul comportamento delle autorità nazionali.
Il rispetto della vita privata e i rapporti tra nonni e nipoti - Al centro del ricorso, la violazione dell'articolo 8 che assicura il diritto al rispetto della vita privata e familiare. Prima di tutto, la Corte ha precisato che se è vero che il diritto in esame è funzionale soprattutto a impedire ingerenze arbitrarie da parte dell'autorità nazionale, è anche vero che la norma impone obblighi positivi sugli Stati al fine di assicurare effettività al diritto. Questo vuol dire - osserva la Corte - che lo Stato deve predisporre «un arsenale giuridico adeguato e sufficiente per garantire i diritti legittimi degli interessati e il rispetto delle decisioni giudiziarie o delle misure specifiche appropriate». Con un obiettivo preciso: assicurare i rapporti tra genitori e figli anche in caso di conflitti tra genitori, in questi casi predisponendo adeguate misure preparatorie.
Non solo. La Corte precisa che il principio indicato, insito nell'articolo 8, deve essere applicato anche ai rapporti tra nonni e nipoti, come chiaramente espresso sia nella sentenza Bronda contro Italia del 9 giugno 1998 sia, più di recente, nella decisione del 25 novembre 2014 Kruškić contro Croazia. Il diritto alla vita familiare, quindi, include i rapporti tra nonni e nipoti che deve essere garantito a entrambe le parti e realizzato assicurando contatti frequenti, propri dei normali rapporti, senza che sia necessaria una coabitazione.
Tra i requisiti che Strasburgo chiede agli Stati nell'attuazione delle indicate misure, la Corte non ha dubbi circa l'importanza di assicurare rapidità nell'individuazione e nell'attuazione delle misure tenendo conto che il decorrere del tempo «può avere conseguenze irrimediabili» nei rapporti familiari, sia a carico dei nipoti sia dei nonni che in taluni casi possono essere anche piuttosto anziani.
Certo, la necessità di assicurare in primo luogo l'interesse superiore del minore impone cautela e accortezza negli interventi, soprattutto prima di ricorrere a misure coercitive, ma senza dimenticare che la rottura di rapporti familiari, di legami solidi, ha un indubbio effetto negativo sul minore che, soprattutto laddove esiste una situazione conflittuale tra genitori, possono perdere un punto fermo di riferimento costituito dalla figura dei nonni.
Alla luce di quanto detto, per verificare se il diritto in esame sia stato rispettato, la Corte ritiene necessario un accertamento sul comportamento delle autorità nazionali al fine di chiarire se «per facilitare le visite, le autorità nazionali hanno preso tutte le misure necessarie che si potevano ragionevolmente esigere».
L'applicazione al caso di specie: la violazione italiana - Chiarito che il rapporto nonni-nipoti è protetto dall'articolo 8, la Corte europea è passata a verificare la situazione posta alla sua attenzione. Nessun dubbio che il procedimento italiano sia stato lunghissimo, considerando che i ricorrenti avevano agito dinanzi al tribunale per i minorenni di Torino sin dal 2002, data dalla quale i due ascendenti non avevano più potuto vedere la propria nipote. Una situazione che è stata causata prima dall'inerzia e poi da una decisione giurisdizionale che ha stabilito l'interruzione degli incontri. Un mix di provvedimenti non eseguiti, di ritardi nelle valutazioni psicologiche, servizi sociali inerti e contraddittorietà nelle scelte che hanno poi portato alla condanna di Strasburgo.
Tra le lacune e le violazioni nel comportamento delle autorità italiane, anche il fatto che non è stato proprio prospettato un percorso di riavvicinamento tra la nipote e i nonni. La sentenza del 2006 non è stata eseguita senza alcun tentativo effettivo. Tra il 2005, anno nel quale era stato riconosciuto il diritto di visita da parte del tribunale di Torino e il 2007, «i servizi sociali non hanno dato esecuzione alla decisione del tribunale che autorizzava gli incontri». Un'inerzia totale, senza l'adozione di alcuna misura, malgrado un provvedimento esecutivo dell'autorità giudiziaria. Eppure, già in passato, proprio nei confronti dell'Italia, la Corte europea ha stabilito che l'adempimento degli obblighi positivi posti a carico dello Stato ai sensi dell'articolo 8 dipende anche dalla rapidità con la quale sono adottate le misure idonee a garantire i rapporti familiari. Nella sentenza del 2 novembre 2010 (Piazzi contro Italia), i giudici internazionali avevano già fornito chiare indicazioni sul comportamento delle autorità nazionali che hanno l'obbligo di evitare misure automatiche e stereotipate al fine di assicurare i rapporti familiari anche con l'adozione di provvedimenti in grado di superare le tensioni all'interno di una coppia di genitori.
Se, nella prima fase, la violazione italiana è imputabile all'inerzia dei servizi sociali, la fase successiva mostra un comportamento contraddittorio da parte dei giudici nazionali in ragione della decisione del tribunale di Torino che aveva disposto la sospensione dei rapporti basandosi sulle relazioni degli psicologi i quali sostenevano che la minore associava i nonni al padre, rivivendo sofferenze legate ai presunti abusi sessuali. Una scelta che, giustamente, alla Corte europea non pare conciliabile con il fatto che il padre è stato assolto. Non solo. Proprio mentre era in corso il procedimento penale i giudici avevano dato il via libera agli incontri: un elemento che suscita perplessità in ordine al provvedimento restrittivo successivo, pronunciato proprio quando il genitore era stato assolto.
La Corte europea riconosce che le autorità nazionali devono agire con molta attenzione quando si trovano di fronte a casi come quello in esame ma, secondo i giudici internazionali, «le autorità competenti non hanno messo in atto tutti gli sforzi necessari per salvaguardare i legami familiari e non hanno così reagito con la diligenza richiesta». È vero che la Corte non può sostituirsi alle autorità nazionali che si trovano in una posizione migliore per individuare le misure necessarie, ma resta il fatto che per dodici anni i nonni non hanno potuto incontrare la nipote. Gli sforzi dei nonni, che avevano chiesto a più riprese di intraprendere un percorso per iniziare nuovi contatti con la nipote, che hanno seguito le indicazioni di psicologi e personale dei servizi sociali, sono stati vani perché per dodici anni non hanno più potuto avere un rapporto familiare indispensabile sia per loro, sia per la propria nipote.
Di conseguenza, anche tenendo conto dell'assenza di sforzi adeguati e sufficienti da parte delle autorità italiane che non sono state in grado di assicurare il diritto dei nonni, che si realizza in primo luogo assicurando il diritto di mantenere i contatti con i nipoti, la Corte ha condannato lo Stato per violazione dell'articolo 8 disponendo una cifra simbolica di 16mila euro per i danni morali subiti dai nonni e di 5mila euro per le spese processuali.
Corte europea dei diritti dell'Uomo – Sezione II – Sentenza 20 gennaio 2015 – Ricorso n. 107/10