Responsabilità

Il comune non risponde della buca se la guida è imprudente

Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 26209 depositata oggi richiamando la nozione di caso fortuito

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di Francesco Machina Grifeo

La presenza di una buca nell'asfalto stradale non giustifica il risarcimento, da parte del comune, per il danno subito dal motociclista caduto mentre teneva una condotta di guida imprudente in quanto tale rientrante nel caso fortuito. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 26209 depositata oggi, che ha rigettato il ricorso del centauro contro la decisione della Corte di Appello di Cagliari.

In primo grado, invece, il Tribunale aveva accolto la domanda risarcitoria ex articolo 2051 c.c. nei confronti del Comune di Porto Torres in relazione alla caduta dal motociclo che sarebbe avvenuta per una buca sull'asfalto stradale durante la notte, condannando il Comune a risarcire il danno non patrimoniale (identificato in lesione fisica e spese mediche) e patrimoniale (identificato in danno al motociclo). Proposto appello da parte dell'Ente, la Corte territoriale lo ha accolto ritenendo che l'appellato avesse tenuto una condotta imprudente tale da integrare il caso fortuito.

Al termine di una lunga e complessa dissertazione la Terza sezione civile ha respinto il ricorso partendo da un precedente del 2018 con cui la stessa Sezione che effettuò un intervento nomofilattico in tema di responsabilità per cose in custodia (art. 2051 c.c.), poi cristallizzato nel 2022, dalle S.U. ord. 30 giugno 2022 n. 20943. È dunque "ormai indiscutibile", prosegue la Corte, che la responsabilità ex art. 2051 c.c. è di natura oggettiva: "La responsabilità di cui all'art. 2051 c.c. ha carattere oggettivo, e non presunto, essendo sufficiente, per la sua configurazione, la dimostrazione da parte dell'attore del nesso di causalità tra la cosa in custodia ed il danno, mentre sul custode grava l'onere della prova liberatoria del caso fortuito, senza alcuna rilevanza della diligenza o meno del custode".

Il fondamento della responsabilità del custode riposa, dunque, su elementi di fatto individuati tanto in positivo - la dimostrazione che il danno è in nesso di derivazione causale con la cosa custodita (la sequenza è quella che muove dall'accertamento di un danno giuridicamente rilevante per risalire alla sussistenza di una relazione causale tra l'evento dannoso e la cosa custodita e si chiude con l'imputazione in capo al custode dell'obbligazione risarcitoria, dalla quale il custode si libera provando il caso fortuito) – quanto in negativo (l'inaccettabilità di una mera presunzione di colpa in capo al custode e l'irrilevanza della prova di una sua condotta diligente).

Dunque, sia il fatto (fortuito) che l'atto (del terzo o del danneggiato) si pongono in relazione causale con l'evento di danno non nel senso della (impropriamente definita) "interruzione del nesso tra cosa e danno", bensì alla luce del principio disciplinato dall'art. 41 c.p., che relega al rango di mera occasione la relazione con la res, deprivata della sua efficienza di causalità materiale, senza peraltro cancellarne l'efficienza causale sul piano strettamente naturalistico.

Ciò tanto nell'ipotesi di efficacia causale assorbente, quanto in quella di causalità concorrente di tali condotte, poiché, senza la preesistenza e la specifica caratterizzazione della res, il danno non si verificherebbe (esemplificando: una strada perfettamente asfaltata e senza buche non sarà in relazione causale, se non naturalistica, con il danno subito dal pedone che inciampa nei suoi piedi).

Ritenere che sul custode gravi una presunzione di responsabilità – esclusa espressamente, come si è detto, dalla già ricordata pronuncia delle Sezioni Unite – è indice di una resistenza ad emanciparsi dalla colpa che, infatti, viene evocata in via surrettizia non per fondare, come regola, la responsabilità del custode, ma (comunque) per escluderla come eccezione. La capacità di vigilare la cosa, di mantenerne il controllo e di neutralizzarne le potenzialità dannose, infatti, non è elemento costitutivo della fattispecie di responsabilità, bensì elemento estrinseco del quale va tenuto conto seguendo il canone interpretativo della ratio legis, cioè come strumento di spiegazione di "un effetto giuridico che sta a prescindere da essi".

Quando poi la prova liberatoria è costituita dalla ricorrenza del caso fortuito "è segno che il legislatore non ha inteso che il custode (o il responsabile di cui all'art. 2052 c.c.) possa liberarsi provando di avere tenuto un comportamento diligente volto ad evitare il danno né la dimostrazione che il danno si sarebbe verificato nonostante la diligenza da lui esigibile, data l'imprevedibilità e l'inevitabilità dell'evento dannoso, e tantomeno che l'intervento del caso fortuito abbia reso oggettivamente impossibile la custodia".

Tornando al caso specifico, il ricorrente persegue a una impostazione diversa e non in linea con quanto detto. Tuttavia il legislatore, conclude la Corte,, "non ha stabilito la liberazione del custode nella prova della sua diligente custodia, eppure è proprio a questo obiettivo che, a ben guardare, si rapportano le censure del ricorrente, sostenendo infatti che il custode non avrebbe potuto prevedere il fatto". Una tale prospettazione, per la Terza sezione civile, non è accoglibile.

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