Il controllo dello smart worker, tra esigenze produttive e rispetto della privacy
La volontà di accedere ai contenuti presenti sugli strumenti utilizzati dai dipendenti per l'esercizio delle loro mansioni fa venire in rilievo il tema dei controlli a distanza sui lavoratori di cui all'art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, come da ultimo rivisitato dal Jobs Act
L'emergenza epidemiologica in corso ha imposto (e impone tuttora) l'utilizzo – per gran parte delle aziende italiane – della prestazione lavorativa dei propri dipendenti "da remoto".
Così, se è vero che la prestazione lavorativa in regime di "smart working" è divenuta ormai l'ordinaria modalità di svolgimento delle proprie mansioni da parte di diversi lavoratori, tale circostanza pone l'interrogativo su come i datori di lavoro si siano strutturati, legittimamente o meno, per "controllare" la produttività del singolo durante la pandemia.
In tal senso, i sistemi di monitoraggio individuati dalle aziende spaziano da software che consentono l'acquisizione delle schermate dei computer dei lavoratori, a programmi che addirittura consentono ai controllori di visionare in tempo reale l'attività svolta per mezzo dei pc od altri strumenti informatici: è doveroso a questo punto domandarsi se, ed entro quali limiti, tali sistemi di monitoraggio possano essere liberamente installati (e utilizzati) dal datore di lavoro anche in una situazione eccezionale come quella che stiamo vivendo.
La volontà di accedere ai contenuti presenti sugli strumenti utilizzati dai dipendenti per l'esercizio delle loro mansioni fa venire in rilievo il tema dei controlli a distanza sui lavoratori di cui all'art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, come da ultimo rivisitato dal Jobs Act: quest'ultimo ha inteso disciplinare in modo diverso l'utilizzo degli "strumenti di controllo a distanza" da un lato, e l'utilizzo degli strumenti che, pur essendo astrattamente idonei a consentire un controllo a distanza del lavoratore, sono, al tempo stesso anche "strumenti di lavoro", dall'altro. Solo per il primo tipo di strumenti occorrono "esigenze organizzative e produttive, di sicurezza del lavoro, di tutela del patrimonio aziendale" nonché alternativamente o un accordo stipulato in sede sindacale o un'autorizzazione rilasciata dal competente Ispettorato del Lavoro.
Ad ogni modo, sia che si tratti di "strumenti di controllo a distanza", sia che si tratti di "strumenti di lavoro", le informazioni raccolte sono utilizzabili nella misura in cui sia stata data al lavoratore adeguata informativa sulle modalità d'uso degli strumenti e dell'effettuazione dei controlli, e questi ultimi avvengano nel rispetto della normativa privacy applicabile (D.lgs. n. 196/03, così come modificato dal D.lgs. n. 101/18; e GDPR): quindi, oltre alla necessità di fornire al lavoratore apposita informativa, affinché il controllo sia considerato lecito, il datore dovrà agire nel rispetto, tra tutti, dei principi di liceità, necessità e proporzionalità del trattamento dei dati acquisiti (come a più riprese sottolineato dal Garante della Privacy).
Oltre a tutto quanto sopra, poi, permane un orientamento giurisprudenziale (ad onor del vero, minoritario) che ritiene possa esservi ancora spazio per il concetto dei c.d. controlli difensivi (categoria di matrice giurisprudenziale nata prima del Jobs Act, per la quale erano considerati legittimi i controlli a distanza finalizzati alla tutela del patrimonio aziendale aventi ad oggetto comportamenti del lavoratore qualificabili come illeciti extracontrattuali), nella misura in cui questi siano appunto "occasionati dalla necessità eccezionale, non dilazionabile nel tempo e non realizzabile altrimenti, di fronteggiare comportamenti del lavoratore che sono qualificabili come illecito": in questi casi, il controllo da parte del datore di lavoro sarebbe, in sostanza, libero (i.e. senza particolari limitazioni / tutele per il lavoratore).
Al di là di quest'ultima possibilità (che, come detto, risulterebbe in ogni caso percorribile solamente in presenza di concrete ipotesi di illecito del lavoratore), tornando ai numerosi casi che, a causa della pandemia in corso, vedono diversi datori di lavoro monitorare da remoto i propri dipendenti, se è vero che siffatti controlli sono generalmente realizzati attraverso "strumenti di lavoro" (quindi astrattamente necessitando, per essere legittimi, della sola informativa consegnata al lavoratore) è altrettanto vero che, nella maggior parte dei casi, si tratta di strumenti di lavoro "modificati" con l'installazione di software atti appunto al controllo. Ebbene: sono anche questi da considerarsi strumenti di lavoro in senso tecnico, con tutto ciò che ne consegue?
La risposta è, nella maggior parte dei casi, negativa. Come chiarito dal Ministero del Lavoro e dalla Giurisprudenza sul punto, nel momento in cui lo strumento di lavoro in dotazione viene modificato (ad esempio, con l'aggiunta di appositi software di localizzazione o filtraggio) per controllare il lavoratore, da strumento che "serve" al lavoratore per rendere la prestazione, il pc, il tablet o il cellulare divengono strumenti di controllo, legittimi solo alle condizioni di cui al detto art. 4 (rendendo necessari, quindi, l'accordo sindacale o l'autorizzazione del competente Ispettorato del Lavoro, nonché la presenza delle esigenze che giustificano il controllo tipizzate dal legislatore).
Ancora una volta, pertanto, un nuovo avvertimento per tutti i datori di lavoro che oggi vogliono monitorare i propri dipendenti che lavorano da remoto: se il controllo è effettuato mediante strumenti di lavoro "rivisitati", ancor prima di sedersi al tavolo sindacale o chiedere l'autorizzazione amministrativa (ITL), il datore di lavoro dovrà specificatamente individuare le esigenze che giustificano siffatto controllo; in tale ottica, la situazione emergenziale che ha obbligato il lavoro da remoto potrebbe considerarsi una valida ragione organizzativa?