Civile

Il convivente assegnatario della casa familiare può opporsi al rilascio chiesto dal compratore

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di Sabina Anna Rita Galluzzo

La Corte di cassazione con la sentenza n. 17971 del 2015 interviene ancora una volta a tutela e rafforzamento dell'istituto dell'assegnazione della casa familiare, istituto che secondo consolidati principi risponde all'esigenza di garantire l'interesse dei figli alla conservazione dell'habitat domestico, al fine di evitare loro l'ulteriore trauma di un allontanamento dal luogo ove si svolgeva la loro esistenza.

Si tratta, precisa a chiare lettere la sentenza in esame, di un istituto finalizzato alla protezione dei figli sia di quelli nati nel matrimonio, che di quelli nati fuori dal matrimonio.
Riaffermando infatti innanzitutto la rilevanza di formazione sociale, della convivenza more uxorio, tutelata dall'articolo 2 della Costituzione, la Cassazione ribadisce l'ormai consolidato principio secondo cui anche in caso di convivenza di fatto la casa familiare va assegnata al genitore che convive con i figli, pur non proprietario dell'immobile o conduttore.
Tale assegnazione, si aggiunge, risulta opponibile ai terzi anche se non trascritta per nove anni. La Corte peraltro non si ferma qui ma stabilisce che la destinazione dell'abitazione a casa familiare va tutelata persino qualora l'alienazione dell'immobile sia avvenuta in un momento antecedente l'emanazione del provvedimento di assegnazione.

La vicenda processuale - Oggetto del caso in esame è un immobile, divenuto abitazione familiare di una coppia di conviventi e dei loro figli. Una volta finita l'unione sentimentale il padre, unico proprietario dell'appartamento, si allontanava dall'abitazione e la alienava a terzi, prima che intervenisse il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa familiare.
L'acquirente dell'immobile pertanto ne chiedeva il rilascio considerandolo occupato senza titolo.
I due gradi di giudizio di merito avevano dato ragione al nuovo proprietario ritenendo che il provvedimento di assegnazione non fosse opponibile a terzi perché non trascritto e comunque successivo di due anni al trasferimento della proprietà del bene.
La Cassazione invece con la sentenza in esame ribalta il verdetto.

Casa familiare e figli naturali - La riforma del 2006, legge sull'affido condiviso, ha reso la disciplina dell'assegnazione della casa coniugale, prevista in precedenza solo per le ipotesi di separazione dei coniugi e di divorzio, applicabile anche ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati (articolo 4, comma 2, della legge 54/2006). Attualmente, inoltre, in forza delle modifiche di cui al decreto 154/2013, in materia di unificazione dello stato di figlio, la disciplina dell'assegnazione della casa coniugale è contenuta nell'articolo 337-sexies del Cc applicabile, ai sensi dell'articolo 337-bis del Cc, anche nel caso di figli nati fuori del matrimonio.

Lo stato della giurisprudenza - Era peraltro già da tempo principio consolidato in giurisprudenza quello secondo cui la casa familiare viene assegnata al genitore convivente con i figli, anche nel caso in cui non vi sia tra madre e padre un legame matrimoniale.
Accogliendo infatti l'orientamento secondo cui l'assegnazione della casa familiare è uno strumento di garanzia e protezione della prole la giurisprudenza aveva ammesso la possibilità di assegnare l'abitazione al convivente more uxorio affidatario dei figli minorenni o che viva con figli maggiorenni non economicamente autosufficienti.
Caposaldo di tale orientamento è stata la sentenza della Corte costituzionale 13 maggio 1998 n. 166, che respingendo la questione di incostituzionalità prospettatale chiariva come, ai fini dell'applicazione dell'istituto dell'assegnazione della casa familiare nell'ambito di una separazione tra conviventi di fatto, non fosse necessaria una specifica norma, in quanto la tutela del figlio naturale è immanente nell'ordinamento.

La soluzione al problema era ricercata pertanto non nell'applicazione alla famiglia di fatto di un istituto tipico della famiglia legittima, ma mediante il ricorso al principio di responsabilità genitoriale, «il quale postula che sia data tempestiva ed efficace soddisfazione alle esigenze di mantenimento del figlio, a prescindere dalla qualificazione dello status».

Nell'ambito dell'obbligo di mantenimento, si sottolineava, assume importanza primaria al fine di garantire un corretto sviluppo psicologico e fisico del figlio «la predisposizione e la conservazione dell'ambiente domestico, considerato quale centro di vita, che contribuisce in misura fondamentale alla formazione armonica della personalità del figlio». Pertanto, l'attuazione del dovere di mantenimento e la conservazione dell'habitat domestico non può in alcun modo essere condizionata dall'assenza del vincolo coniugale tra i genitori, poiché la fonte dell'obbligo è solamente la sussistenza del rapporto di filiazione.
Il principio è stato poi costantemente applicato anche dalla giurisprudenza successiva sotto la vigenza dell'affido condiviso, ove l'assegnazione viene disposta a favore del genitore collocatario dei minori, affidati a entrambi (Cassazione 18863/2011).

Il regime di opponibilità - La tutela dell'assegnatario trova un completamento nella disciplina della trascrizione prevista dall'articolo 337-sexies del Cc, applicabile anche nel caso di scioglimento di una coppia di fatto, secondo il quale la trascrizione dell'assegnazione della casa familiare è sempre opponibile al terzo acquirente. La mancata trascrizione invece rende l'assegnazione opponibile nei limiti del novennio dalla data del provvedimento.
Anche riguardo tale tematica la giurisprudenza, intervenuta prima della legge, aveva consentito la trascrizione del provvedimento di assegnazione in ipotesi di figlio nato fuori del matrimonio.

In particolare la Corte costituzionale, aveva espressamente affermato che anche nel caso di separazione di conviventi di fatto il provvedimento con cui viene assegnata la casa familiare al genitore affidatario di figli minori o che viva con figli maggiorenni non economicamente autosufficienti, e che non sia titolare di diritti reali o di godimento sull'immobile, può essere trascritto nei registri immobiliari ai fini della sua opponibilità ai terzi.
Una diversa interpretazione, si precisava, renderebbe l'atto non opponibile ai terzi e potrebbe essere vanificato il vincolo di destinazione impresso alla casa familiare (Corte costituzionale n. 394 del 2005).

Le motivazioni della sentenza - Nel caso in esame peraltro la situazione di fatto è ben più complessa perché non solo il provvedimento di assegnazione non era stato trascritto, ma non era neppure stato ancora emanato al momento della vendita dell'immobile.
La Corte sbroglia la matassa riesaminando principi giurisprudenziali consolidati e sottolineando innanzitutto come la convivenza more uxorio, crei «in virtù dell'affectio che costituisce il nucleo costituzionalmente protetto della relazione di convivenza un interesse proprio del convivente, tale da assumere i connotati di una detenzione qualificata».
Da qui discende che il convivente non proprietario non è un mero ospite ed è pertanto legittimato a esperire la tutela possessoria in caso di estromissione violenta o clandestina dalla casa.

In particolare, precisano i giudici di legittimità richiamando precedenti giurisprudenziali (tra le altre Cassazione 7214/2013), il diritto personale di godimento del convivente non proprietario è del tutto equiparabile a quello riconducibile alla posizione del comodatario, e ciò anche nel caso in cui l'altro genitore sia esclusivo proprietario dell'immobile.

Il comodato della casa familiare - Passando pertanto a esaminare i precedenti in tema di comodato della casa familiare si sottolinea come sia orientamento consolidato, in seguito a due importanti interventi della Cassazione a sezioni Unite, quello secondo cui il soggetto che formalmente assume la qualità di comodatario riceve il bene non solo o non tanto a titolo personale, quanto piuttosto quale esponente della comunità familiare.

Secondo la giurisprudenza in particolare, nel caso di scioglimento della coppia genitoriale, la casa familiare resta al coniuge al quale è stata assegnata anche se concessa in comodato da un terzo, ciò in quanto il provvedimento di assegnazione, non modifica la natura e il contenuto del titolo di godimento sull'immobile, ma determina una concentrazione, nella persona dell'assegnatario, di detto titolo di godimento, che resta regolato dalla disciplina del comodato.

L'assegnatario pertanto può contrastare il recesso del comodante finché non viene a cessare l'uso al quale la casa era stata destinata (Cassazione 21 luglio 2004 n. 13603).
Peraltro, hanno ulteriormente precisato le sezioni Unite, (Cassazione, sentenza n. 20448 del 2014) nel nostro ordinamento vi sono due forme di comodato: quello propriamente detto, regolato dagli articoli 1803 e 1809 del Cc, e quello cosiddetto precario senza determinazione di durata (articolo 1810 del Cc).

Nel primo caso il comodante può recedere solo in ipotesi di sopravvenienza di un urgente e imprevisto bisogno, nel caso di comodato precario invece il comodante può richiedere la restituzione del bene in qualunque momento.

Sottolinea in proposito la Cassazione come il comodato di immobile concesso al fine di soddisfare le esigenze abitative della famiglia del comodatario rientri nel comodato sorto per un uso determinato di cui all'articolo 1803 del codice civile.
Pertanto anche se le parti non hanno fissato un termine esplicito di durata non può affermarsi che si tratti di contratto senza determinazione di durata.
Il termine infatti esiste, anche se non è stato definito, ed è ricavabile dalla finalità del comodato che è quella della soddisfazione delle esigenze della famiglia, intesa anche nelle sue potenzialità di espansione.
In una tale ipotesi dunque il comodante può richiedere la restituzione dell'immobile solamente in ipotesi di sopravvenienza di un urgente e imprevisto bisogno ai sensi dell'articolo 1809 del Cc.

Una durata per relationem - Nel caso in esame la Suprema corte ribadisce tale orientamento aggiungendo una rilevante precisazione: anche se tali principi sono stati sempre dettati in ipotesi di unioni coniugali, sono comunque applicabili anche alle convivenze di fatto.
Punto focale della questione resta la destinazione dell'immobile a casa familiare, destinazione successivamente cristallizzata dal provvedimento giudiziale di assegnazione.
I giudici pertanto sostengono che il rapporto di comodato sia sorto per un uso determinato e ha, in assenza di un'indicazione della scadenza, una durata determinabile per relationem i n quanto ricollegabile alla destinazione dell'immobile a casa della famiglia.
È quindi, legato alle necessità familiari che hanno dato origine all'assegnazione dell'immobile ed è destinato a venir meno solo al dissolversi di queste ultime, indipendentemente dalla sussistenza di una crisi coniugale.

L'anteriorità dell'assegnazione - Tali principi, sottolineano i giudici di legittimità, sono applicabili anche qualora il proprietario abbia alienato a terzi l'abitazione in quanto resta immutato il vincolo di destinazione dell'immobile.
A detta operazione negoziale, difatti, può essere opposto un doppio titolo detentivo; «il primo costituito dalla convivenza di fatto con il proprietario dante causa, il secondo dalla destinazione dell'immobile a casa familiare, prima della alienazione a terzi, e dalla cristallizzazione di tale ulteriore vincolo mediante l'assegnazione della casa familiare».
In questo contesto, secondo la sentenza in esame, che in tal modo si contrappone a opinioni espresse in dottrina, non ha alcuna rilevanza il fatto che la vendita sia avvenuta in un momento anteriore al provvedimento di assegnazione in quanto la convivente aveva già da tempo assunto la qualità di detentore qualificato dell'immobile ed era indiscussa la destinazione a casa familiare impressa dal proprietario stesso.

La relazione con l'immobile, precisano i giudici, in virtù di tale destinazione, non ha natura precaria ma, al contrario, è caratterizzata da un vincolo di scopo legato alle esigenze dei figli.
Rilevante è, nel caso di specie, secondo la Cassazione, il fatto che il terzo acquirente, fosse a conoscenza della destinazione a casa familiare dell'abitazione.
Vi era infatti stata un'azione revocatoria volta, specifica la sentenza in esame, a riconoscere che la vendita aveva lo scopo di sottrarre parte dei beni del debitore (il padre) all'adempimento degli obblighi alimentari verso i propri familiari.
L'accoglimento di tale azione pertanto dimostra che il terzo acquirente era a conoscenza della destinazione impressa all'immobile.

Un rafforzamento della tutela della famiglia - Seguendo dunque l'orientamento consolidato in tema di assegnazione della casa familiare la Cassazione rafforza ulteriormente la tutela della famiglia intesa quale nucleo che ruota attorno alla presenza di figli precisando e sottolineando, nel solco non solo dei precedenti giurisprudenziali ma della fondamentale riforma in materia di filiazione che tali principi si applicano indistintamente ai figli nati nel matrimonio e a quelli nati fuori del matrimonio.

Tale tutela sorge, secondo la Corte non solo in seguito al provvedimento giudiziale di assegnazione, ma addirittura a causa della destinazione di fatto data all'immobile precedentemente all'emanazione del provvedimento stesso.
La tutela del terzo inoltre è, nel caso di specie, assicurata dalla circostanza che l'acquirente era a conoscenza della destinazione a casa familiare dell'immobile e che dunque non era in buona fede, ma anzi, come sottolineato dalla Cassazione era stato «partecipe del disegno volto alla sottrazione del bene dal patrimonio del debitore».

Corte di cassazione – Sezione I civile – Sentenza 11 settembre 2015 n. 17971

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