Lavoro

Il disvalore sociale delle modalità di espressione dell'opinione del dipendente giustificano il licenziamento

Nota a sentenza Cass. sez. lav., 13 marzo 2023, n. 7293, Cons. Rel. Dott. Cinque

di Federico Manfredi*

Integra la giusta causa di licenziamento il comportamento dell'autista di bus che ha utilizzato il dispay esterno del mezzo per diffondere un messaggio di dissenso relativo all'obbligo vaccinale all'epoca vigente. (Cass. sez. lav., 13 marzo 2023, n. 7293, Cons. Rel. Dott. Cinque).

Sono passati poco più di 350 anni da quando nel 1666 il noto filosofo e matematico (ma forse meno noto giurista) Gottfried Wilhelm von Leibniz conseguiva a Norimberga il dottorato in giurisprudenza discutendo la propria tesi dal titolo "De casibus perplexis in iure".

La citazione del dato storiografico non è un vezzo antiquariale di chi scrive, ma ben testimonia che la presenza di casi stravaganti nel diritto non è certo appannaggio della nostra contemporaneità. Né si può correre il rischio che detto appannaggio diventi invece la semplificazione dei casi alla loro dimensione aneddotica e folkloristica.

Il faro dell'attenzione mediatica che il casus perplexus è in grado di accendere sul contenuto della decisione in esame non può indurre l'interprete ad un'analisi reportistica sulla curiosità della vicenda giudiziaria che ha portato alla sentenza in commento. Si impone, invece, un approccio ancor più rigoroso che superi le facili distrazioni dell'esuberanza del caso concreto, per dare la giusta attenzione che merita il diritto che quel caso ha incontrato e (condivisibilmente o meno) risolto.

Uno fra questi casi è ben rappresentato dalla decisione della Suprema Corte, 13 marzo 2023, n. 7293, che si commenta, in cui l'innegabile "comicità" della fattispecie cattura la curiosità dell'uomo-lettore, ma allo stesso tempo distrae la concentrazione dell'uomo-giurista, così rendendo meno vistosa la portata dei pur rilevanti principi di diritto ivi espressi.

IL CASO DI SPECIE

Il caso giunto al vaglio della Suprema Corte concerne un autista di mezzi pubblici cittadini, colpito da un provvedimento di destituzione ai sensi dell'art. 45 sub 2 e sub 9 del R.D. n. 148/1931 – cui è seguito licenziamento per giusta causa. Il dipendente, infatti, durante il turno di servizio aveva utilizzato il sistema di bordo per la tabellazione della vettura aziendale di cui era responsabile durante quel turno, per divulgare un messaggio che riportava la propria posizione di dissenso nei confronti della scelta governativa sull'obbligo vaccinale – cui lui era evidentemente contrario – comportando, a dire dell'azienda, gravi ripercussioni sulla reputazione e l'immagine aziendale, riconoscendo l'autista come incaricato di pubblico servizio.

Di fatto il lavoratore aveva temporaneamente rimosso dal display dell'autobus il numero identificativo della linea, arrecando all'utenza un pregiudizio nel riconoscimento della vettura e quindi un disagio nell'utilizzo dei mezzi pubblici cittadini. L'autista aveva altresì fotografato la propria opera e - condivisa su gruppi Facebook – aveva risposto a commenti di altri utenti fornendo alla collettività informazioni privilegiate riguardanti il suo rapporto di lavoro con l'azienda dei trasporti cittadini (nella specie, menzionando, con tono di sfida, le precedenti controversie intercorse con il datore di lavoro e il loro esito).

In seguito a regolare e formale contestazione – cui ha seguito la destituzione – il lavoratore ha impugnato il provvedimento disciplinare emesso dall'azienda datrice di lavoro.

L'impugnazione, respinta in primo e secondo grado, è stata oggetto di ricorso avanti alla Suprema Corte di Cassazione.

QUESTIONI SULL'ATTUALIZZAZIONE DELLA DISPOSIZIONE DI LEGGE O CONTRATTO

Primo punto di interesse affrontato dalla sentenza in commento attiene al cosiddetto genere delle "interpretazioni adeguatrici" di legge o di contratto.

Infatti, il rapporto di lavoro del ricorrente – come di tutto il personale delle ferrovie, tranvie e linee di navigazione interna in regime di concessione – viene disciplinato dal R.D. 148/1931 come coordinamento delle norme sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi del lavoro con quelle sul trattamento giuridico-economico previsto per questa particolare categoria di lavoratori.

Il legislatore del '31 ha omesso di inserire nel testo della norma una formula "a ombrello" che la potesse rendere idonea a "sopravvivere" anche ai necessari cambiamenti del futuro. Per far fronte al problema, la Corte di Cassazione ha fatto ricorso a tecniche di interpretazione estensiva e storica del testo del Regio Decreto attualizzando di fatto una previsione altrimenti obsoleta e niente affatto in grado di disciplinare alcun caso concreto. Infatti l'art. 45 del R.D. 148/31 prevede espressamente che chi, scientemente e per qualsiasi motivo, altera o falsifica biglietti di viaggio o altri documenti di trasporto, altera, falsifica, sottrae o distrugge documenti di servizio, registri od atti qualsiasi appartenenti alla azienda o che la possano comunque interessare.

In giurisprudenza è ormai pacifico infatti che tale criterio interpretativo della legge sia da considerarsi legittimo: già nel 2017 la stessa si era espressa con la pronuncia n. 30420 facendo ricorso al medesimo metodo nell'interpretazione di un contratto collettivo, che, soggetto per la sua natura privatistica alle disposizioni dettate dagli artt. 1362 e ss. cod. civ., non permetteva di fare ricorso all'analogia, prevista, dall'art. 12, comma 2, delle preleggi, per la sola norma di legge. Il giudice aveva in quel contesto esteso, ai sensi dell'art. 1365 cod. civ., mediante un'interpretazione estensiva, una pattuizione ad un caso non espressamente contemplato dalle parti, ma ragionevolmente assimilabile a quello regolato.

Oltre al principio generale espresso dalla Suprema Corte varie altre volte si è pronunciata a favore dell'interpretazione estensiva di disposizioni previste in vari CCNL di settore: nel 2013 con la sentenza n. 13917, in tema di individuazione del presupposto fissato dall'art. 29, all. 7, del c.c.n.l. 1990/1992 del personale delle Ferrovie dello Stato, per la sussistenza del diritto al beneficio del premio giornaliero per il disimpegno, equiparando all'ipotesi di "improvvisa assenza" quella di cronica assenza di personale, e ritenendo, attraverso una interpretazione estensiva, che il compenso per la sostituzione di un dipendente assente sia dovuto, in base al principio di cui all'art. 36 cost., anche nell'ipotesi in cui l'assenza, anziché improvvisa, sia stata determinata da carenza di organico; o ancora già nel 2004 con la pronuncia n. 22458, riconoscendo la necessaria prevalenza del criterio letterale nell'interpretazione dei contratti collettivi di diritto comune, pur però sottoponendolo alla condizione che l'indagine extra - testuale confermi la coerenza tra la lettera della dichiarazione e la volontà delle parti e che quindi effettivamente la prima consenta di cogliere la comune intenzione dei contraenti.

È soffermandosi su tale principio relativo all'intenzione dei contraenti che la Suprema Corte ha operato l'interpretazione estensiva nella pronuncia in commento, nel momento in cui ha ritenuto che il comportamento del dipendente fosse sanzionabile in quanto consisteva in una appropriazione, sia pure temporanea, di un bene aziendale nella disposizione del lavoratore, e a lui affidato e dallo stesso "alterato". Chiaramente nel 1931, quando è stata promulgata la legge di coordinamento delle norme sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi del lavoro con quelle sul trattamento giuridico-economico previsto per il personale delle ferrovie, tranvie e linee di navigazione interna in regime di concessione non si poteva immaginare che per segnalare l'identificazione della linea su cui operava una particolare vettura sarebbero stati utilizzati led, display luminosi o altri mezzi di recente invenzione, e pertanto, assolvendo questi ultimi alla medesima funzione che un tempo era svolta dai documenti di trasporto quali cartelli che riportavano il numero di vettura, registri o altri prodotti idonei allo scopo perseguito, vi è una identità di funzione dello strumento di cui è stato fatto un uso improprio e risulta dunque evidente la logica dell'interpretazione estensiva applicata dalla Suprema Corte.

La condotta del dipendente è stata pertanto ritenuta sanzionabile ai sensi dell'art. 45, punti 2 e 9 del citato Regio Decreto con destituzione, in base alla sussunzione del comportamento tenuto alla norma in parola per interpretazione estensiva della legge.

LA PROPORZIONALITÀ DEL RECESSO

Ulteriore aspetto di interesse risolto dalla Cassazione nella decisione in commento riguarda la motivazione espressa con riguardo al giudizio di proporzionalità del licenziamento disciplinare irrogato al dipendente.

A tal proposito la Suprema Corte ha ritenuto sussistenti i presupposti per riconnettere il licenziamento alle ipotesi di giusta causa ex art. 2119 cod. civ. così pronunciandosi: "la Corte territoriale ha valutato la gravità del fatto ex articolo 2119 c.c., in ordine al comportamento del lavoratore, non solo considerando le condotte già previste quali causa di destituzione o di licenziamento senza preavviso ma anche vagliando l'affermazione di scherno, sprezzante e fortemente denigratoria, manifestata dal lavoratore nello stesso contesto temporale, nei confronti della propria azienda: dichiarazione di per sé idonea ad essere sanzionata con la sospensione dal servizio. Anche pertanto, avendo riguardo alla nozione legale di giusta causa i giudici del merito hanno esattamente ritenuto la gravità della condotta e la proporzionalità della sanzione applicata".

La Corte introduce così un ulteriore elemento di valutazione, ossia una ulteriore condotta del lavoratore, tenuta al di fuori del luogo e del contesto lavorativo, quale elemento idoneo a supportare un provvedimento disciplinare nei confronti dello stesso. Tuttavia, a parere di chi scrive, ciò che non appare ancora evidente è l'elemento necessario da considerare quale presupposto per poter ritenere proporzionale una sanzione espulsiva e non sospensiva o economica.

Ma non è tutto. Prosegue, infatti la Corte affermando che: "Il notevole disvalore sociale di tutto il comportamento oggetto di incolpazione ed il quomodo del suo sviluppo non consentono, del resto, in alcun modo la sussunzione dell'addebito nella diversa previsione contrattuale della mera "mancanza da cui è derivata una momentanea irregolarità del servizio".

Ebbene, secondo la Cassazione, il fatto che la condotta tenuta dal dipendente – che per quanto volgare e abusiva pur consiste nell'esercizio di un'opinione politica - fosse di notevole disvalore sociale varrebbe a giustificare la proporzionalità del recesso. Le conclusioni sono di una certa dirompenza.

Infatti, la motivazione appare più immediata sul piano dell'esperienza privata che su quello del diritto in senso stretto, specialmente se si considera il "peso" dei valori costituzionali che sono stati dapprima saggiati e – all'esito – ritenuti non prevalenti dalla Cassazione.

Si consideri:

(i) l'art. 1 St. Lav. rubricato "Libertà di opinione" – che afferma: "I lavoratori, senza distinzione di opinioni politiche, sindacali e di fede religiosa, hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero, nel rispetto dei principi della Costituzione e delle norme della presente legge";


(ii) l'art. 21 della Costituzione Italiana, secondo cui: "Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione …";


(iii) l'art. 10 della CEDU, a mente del quale "Ogni persona ha diritto alla libertà d'espressione. Tale diritto include la libertà d'opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza ingerenza alcuna da parte delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiera
…".

Orbene la parte interessante della pronuncia in commento è che nell'operare tale bilanciamento di detti diritti ha per lo meno per implicito affermato che il diritto di espressione del dipendente nel casi di cui trattasi fosse al contempo:

(i) in conflitto con altri diritti costituzionalmente garantiti di pari grado non potessero essere soddisfatti contemporaneamente;

(ii) da ritenersi sopprimibili in ragione della prevalenza di quest'ultimi sui primi nella gerarchia dei valori costituzionali, tra cui l'integrità personale della persona ivi compresa quella delle persone giuridiche.

In dettaglio è noto che perché le modalità espressive dell'opinione possano dirsi legittimamente esercitabili occorre che le stesse avvengano secondo verità, pertinenza e continenza. Ed è proprio in tale prospettiva che la pronuncia in commento ritiene di giustificare il proprio bilanciamento, ravvisando il precitato disvalore sociale nel fatto che tale esternazione di pensiero non fosse stata esercitata dall'autista secondo verità.Infatti, ricorrendo al tabellone luminoso dell'autobus per la veicolazione del proprio (libero) pensiero il lavoratore ha indotto i consociati a ritenere (contrariamente al vero) che l'opinione non fosse espressa dall'autista, ma dalla Società datrice di lavoro in generale.

Il danno irreparabile arrecato non sussumibile ad essere addebitato nella diversa previsione contrattuale della mera mancanza da cui è derivata momentanea irregolarità del servizio, sarebbe quindi l'aver piuttosto ricondotto all'azienda datrice di lavoro un opinione politica e/o di critica, contrariamente alla propria volontà.

Comprendendo così che il dipendente, esercitando per una mano la propria libertà d'espressione, ha finito per comprimere con l'altra mano quella altrui (del datore di lavoro e dei terzi). In definitiva, la giusta causa del licenziamento non è integrata dal contenuto dell'opinione manifestata, ma dalle modalità con cui è stata espressa.

* a cura di Federico Manfredi, Trifirò & Partner Avvocati


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