Penale

Il querelante non può più opporsi al giudizio chiuso con decreto penale

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di Renato Bricchetti


Con la sentenza n. 23 del 27 febbraio 2015 la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 459, comma 1, del Cpp, come sostituito dall'articolo 37, comma 1, della legge 16 dicembre 1999 n. 479 «nella parte in cui prevede la facoltà del querelante di opporsi, in caso di reati perseguibili a querela, alla definizione del procedimento con l'emissione di decreto penale di condanna».

Reati procedibili a querela e procedimento per decreto - All'apparire del codice 1989 il procedimento per decreto era previsto soltanto per i reati perseguibili d'ufficio.
Nella relazione al progetto preliminare del codice si esprimeva, invero, la convinzione che la particolare celerità di detto procedimento inaudita altera parte mal si coniugasse con le peculiari esigenze di accertamento dei reati perseguibili a querela.

La 16 dicembre 1999 n. 479 (si veda «Guida al Diritto» 2000, 1) ha superato dette affermazioni, estendendo il procedimento monitorio, con lo scopo dichiarato di incentivarne il ricorso, ai reati procedibilità a querela, al tempo stesso introducendo, quale condizione per l'instaurazione, l'assenza di una dichiarazione di opposizione del querelante e in tal modo aprendo la strada, come subito rilevato in dottrina, a possibili censure costituzionali (cfr. in particolare Paolozzi, Il processo penale dopo la “Legge Carotti”, Commento all'art. 37 , in Diritto penale e processo 2000, pag. 307).

L'attribuzione al querelante della facoltà di opporsi al procedimento per decreto - Ora, a circa quindici anni dalla riforma, le perplessità si traducono in conclamate violazioni delle norme costituzionali.
L'attribuzione al querelante-persona offesa dal reato, perché si preservi la possibilità di costituirsi parte civile nel processo penale per far valere la pretesa risarcitoria, della facoltà di opporsi alla definizione del procedimento mediante decreto penale di condanna viola in particolare il canone di ragionevolezza (articolo 3 della Costituzione) e il principio di ragionevole durata del processo (articolo 111 della Costituzione) in quanto distingue la posizione del querelante da quella della persona offesa da reato perseguibile d'ufficio, non corrisponde ad alcun interesse del querelante meritevole di tutela, determina un ingiustificato allungamento dei tempi del processo, si pone in contrasto con le esigenze di deflazione proprie dei riti alternativi premiali ed è in contraddizione con la mancata previsione di un'analoga facoltà di opposizione alla definizione del processo mediante patteggiamento.

L'efficacia deflattiva del rito - La Corte si mostra particolarmente sensibile all'esigenza di non ostacolare la realizzazione dell'effetto deflattivo di questo rito premiale «che, nelle intenzioni del legislatore, assume una particolare importanza per assicurare il funzionamento del processo “accusatorio” adottato con la riforma del codice di procedura penale».
La sentenza va condivisa e accolta con favore benché l'incidenza pratica della soppressione della facoltà di opposizione del querelante sul ricorso al procedimento per decreto si rivelerà minima, sia perché relativamente pochi sono i reati perseguibili a querela che entrano nell'orbita di questo rito, sia soprattutto perché sono nella pratica piuttosto rare le opposizioni dei querelanti.
Altre sono forse le ragioni che hanno, negli ultimi anni, minato l'efficacia di questo rito, effettivamente fondamentale in chiave deflattiva.
Com'è noto, con il decreto penale il giudice per le indagini preliminari condanna, su richiesta del pubblico ministero e senza attivare contraddittorio alcuno con l'imputato, ad una pena pecuniaria ridotta fino alla metà del minimo edittale.

I benefici premiali sono davvero allettanti: la citata riduzione della pena, l'esclusione delle pene accessorie e delle spese del procedimento, l'inefficacia del giudicato nel giudizio civile o amministrativo, l'estinzione del reato e di ogni effetto penale dopo un quinquennio (delitti) o un biennio (contravvenzioni) qualora l'imputato non commetta altri reati della stessa indole.
Infine, la pena pecuniaria, come si legge nel primo comma dell'articolo 459 del Cpp, può essere inflitta anche in sostituzione di una pena detentiva. E la sostituzione può riguardare la pena detentiva (reclusione o arresto) «entro il limite di sei mesi», come stabilito dall'articolo 53, primo comma, della legge 24 novembre 1981 n. 689.
Questa previsione ha sempre avuto particolare rilevanza per il funzionamento del rito (che - è forse prosaico ricordarlo - porta denaro nelle casse dell'Erario) perché lo apriva ai numerosissimi reati puniti con pene congiunte: arresto e ammenda (come, ad esempio, la ricorrente contravvenzione di guida sotto l'influenza dell'alcool di cui all'articolo 186, comma lettere b) e c) del Dlgs 30 aprile 1992 n. 285), reclusione e multa (come, ad esempio, la non meno ricorrente ipotesi di omesso versamento delle ritenute previdenziali o assistenziale di cui all'articolo 2, comma 1-bis, del Dl 12 settembre 1983 n. 463 convertito dalla legge 11 novembre 1983 n. 638).

La necessità di rivitalizzare il procedimento per decreto - Ebbene questa enorme potenzialità deflattiva del rito è svanita. E la ragione è subito individuata.
L'articolo 53 della legge n. 689 del 1981, dianzi indicato, prevede che «La sostituzione della pena detentiva ha luogo secondo i criteri indicati dall'articolo 57. Per determinare l'ammontare della pena pecuniaria il giudice individua il valore giornaliero al quale può essere assoggettato l'imputato e lo moltiplica per i giorni di pena detentiva. Nella determinazione dell'ammontare di cui al precedente periodo il giudice tiene conto della condizione economica complessiva dell'imputato e del suo nucleo familiare. Il valore giornaliero non può essere inferiore alla somma indicata dall'articolo 135 del codice penale e non può superare di dieci volte tale ammontare. Alla sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria si applica l'articolo 133-ter del codice penale».

Per farla breve, spostandoci subito sull'articolo 135 del Cp, il computo ha luogo calcolando 250 euro di pena pecuniaria per un giorno di pena detentiva e detto importo è stato introdotto dall'articolo 3, comma 62, della legge 15 luglio 2009 n. 94. L'importo precedente era di euro 38,73 e rappresentava la conversione in euro dell'importo di lire 75.000 che era stato introdotto, in sostituzione di quello in precedenza previsto (lire 25.000), dall'articolo 1 della legge 5 ottobre 1993 n. 402.

Ecco, dunque, la prima “clamorosa” ragione di non funzionamento: l'importo: 250 euro al giorno sono una somma enorme, che pochi si possono permettere.
Questo valore giornaliero, oltre a non essere realistico, rende problematico e comunque disincentiva l'utilizzo dello strumento, alimentando le opposizioni.
L'imputato preferisce la strada dell'opposizione al decreto di condanna; qualcuno quella dell'insolvibilità che al più conduce alla libertà controllata o al lavoro sostitutivo.

Se si vuole davvero rivitalizzare questo rito, si dovrebbero seguire le linee della Commissione ministeriale che ha operato nel 2013 sotto la guida di Giovanni Canzio e che ha tradotto la necessità di potenziare il rito:
•nel prevedere (con un nuovo comma 1-bis dell'articolo 459 del Cpp), per il caso di irrogazione di una pena pecuniaria in sostituzione di una pena detentiva, che il valore giornaliero al quale può essere assoggettato l'imputato, da moltiplicare per i giorni di pena detentiva, sia, in deroga all'articolo 135 del Cp e all'articolo 53, secondo comma, della legge 24 novembre 1981 n. 689, di euro 75 per un giorno di pena detentiva;
•nel prevedere (nuovo comma 1-ter dell'articolo 459) che, nei casi previsti dalla legge, la pena detentiva e pecuniaria possa essere sostituita, se non vi è opposizione da parte dell'imputato, con quella del lavoro di pubblica utilità;
•nel prevedere (comma 3 dell'articolo 461 e commi 2 e 3 dell'articolo 464) che con l'opposizione l'imputato possa domandare la sostituzione della pena detentiva e pecuniaria con quella del lavoro di pubblica utilità;
•nel prevedere (comma 1 lettera e) dell'articolo 460, comma 3, dell'articolo 461 e comma 1, dell'articolo 464) che con l'opposizione non possa esse richiesta l'applicazione della pena a norma dell'articolo 444 (è l'identità di effetti dei due riti a suggerire questo intervento);
nell'intervenire, per esigenze di coordinamento, sull'articolo 557;
•nell'effettuare gli altri necessari interventi di coordinamento sulle norme di diritto penale sostanziale (ad esempio il comma 9-bis dell'articolo 186 e il comma 8-bis dell'articolo 187 del Codice della strada).
Stupisce che il recente disegno di legge governativo di riforma del codice di rito si sia dimenticato di questo fondamentale rito speciale.

Corte costituzionale - Sentenza 27 febbraio 2015 n. 23

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