Il rifiuto del part time giustifica il licenziamento
Al datore l’onere di dimostrare che la riduzione è l’unica scelta percorribile per la salvaguardia del posto di lavoro e che, diversamente, la compagine non avrebbe più necessità di della risorsa a tempo pieno
E’ oramai un principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità che il rifiuto del dipendente di ridurre il proprio orario di lavoro può comportare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo nel caso in cui, come spesso accade, l’offerta è stata formulata dal datore di lavoro nell’assolvimento dell’obbligo di repechage e quindi di fronte ad effettive esigenze economiche, che hanno portato alla riduzione del personale o comunque al dove ridisegnare l’organizzazione aziendali, tale da non consentire il mantenimento del tempo pieno.
La posizione è stata di recente rinnovata dalla Cassazione con sentenza 9 maggio 2023, n. 12244 , che merita attenzione poiché si inserisce nell’ambito della più ampia discussione riguardante i confini dell’obbligo datoriale di giustificare il licenziamento economico con l’impossibilità di collocare il lavoratore diversamente.
Parliamo di obbligo di repechage ed è opportuno un breve cenno riepilogativo.
UN BREVE CENNO SUL REPECHAGE
Il repechage (ovvero, il ripescaggio) è un obbligo di costruzione giurisprudenziale, posto a carico del datore di lavoro che procede al licenziamento individuale di un dipendente, per giustificato motivo oggettivo ovvero quello determinato “da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa” (art. 3, legge 15 luglio 1966 n. 604); l’azienda può procedere al licenziamento, economico di un dipendente per vari ragioni quali la soppressione del posto di lavoro, una diversa organizzazione dei reparti (e delle mansioni) all’interno della propria struttura, oppure anche la necessità di maggiore margine economico come riportato da alcune recenti posizioni proprio della Cassazione.
Per avere un licenziamento legittimo, che quindi non possa comportare un ordine di reintegrazione o un risarcimento del danno (a seconda del tipo di tutela che si applica), il datore di lavoro dovrà accertarsi che alla data del recesso intimato al lavoratore non esistano altre posizioni di lavoro equivalenti in azienda ove lo stesso potesse essere utilmente inserito secondo un criterio orizzontale; dopo la modifica dell’art. 2103 cod. civ., e l’ampliamento del concetto di categoria legale, in giurisprudenza la posizione prevalente è stata quella di richiedere una verifica anche relativamente alle mansioni inferiori e anche alla riduzione dell’orario di lavoro, al fine di escludere definitivamente che il datore di lavoro non avesse altra soluzione che quella del licenziamento.
Questa previsione cosi estesa, seppur totalmente giurisprudenziale, è ispirata all’idea che il licenziamento rappresenti comunque la extrema ratio e che il posto di lavoro debba essere tutelato in ogni modo.
In questo senso, per altro, l’onere della prova è molto rigido. Il datore di lavoro dovrà allegare tutta la documentazione e gli elementi di fatto necessari a corroborare la propria tesi, dunque a dimostrare che altre posizioni di lavoro non fossero comunque presenti o che, a fronte di una proposta di diverso collocamento, sia stato il lavoratore stesso ad aver rinunciato alle nuove mansioni appartenenti o meno alla medesima categoria legale inziale.
Chiaramente tale orientamento ha portato all’affermarsi della regola di un equilibrato contemperamento, in materia, tra gli interessi del datore di lavoro e quelli del lavoratore, in un’ottica solidaristica e di buona fede nei relativi rapporti (ad. es. Cass. 2/8/2001 n. 10574 , pres. Saggio, est. Cellerino): in questo senso, infatti, anche il lavoratore deve fornire una valida collaborazione e in un eventuale giudizio indicare quelle posizioni di lavoro libere, o presumibilmente libere, nelle quali avrebbe potuto essere utilmente inserito da parte dell’azienda.
In linea di massima, quindi, senza la prova dell’impossibilità di una diversa collocazione, il licenziamento è illegittimo e le conseguenze saranno quelle applicabili a seconda della
dimensione aziendale.
IL RIFIUTO DI RIDURRE L’ORARIO DI LAVORO
Nel caso analizzato dalla Cass. 12244/2023 , ci si è posti di fronte alla situazione di esubero del personale di un supermercato ove i soci titolari, all’interno di una piccola struttura inferiore ai 15 dipendenti, hanno operato una riorganizzazione subentrando in alcune attività ordinarie e quotidiane; in questo ridisegnamento delle mansioni, il datore di lavoro si è reso conto che il personale addetto alle varie mansioni (segnatamente 3 dipendenti) non poteva continuare ad avere un orario di lavoro a tempo pieno, rappresentando un costo non sostenibile dal momento che – come visto – proprio i titolari aziendali avevano deciso di prestare personalmente la propria attività all’interno del punto vendita.
La proposta di riduzione dell’orario di lavoro, quindi, era stata rivolta ai 3 lavoratori al fine di preservare comunque il posto di lavoro, in prospettiva di nuovi cambiamenti in futuro (una nuova espansione o semplicemente delle condizioni economiche diverse), dei quali solo in 2 hanno accettato tale proposta; il terzo lavoratore ha rifiutato l’offerta ritenendola non congrua ed è stato poi licenziato per intervenuta soppressione del posto di lavoro, non essendovi più spazio per un dipendente a tempo pieno. Impugnato il licenziamento, il lavoratore ha agito sostenendo la natura ritorsiva del licenziamento ovvero, in brevis, che il datore di lavoro aveva proceduto al recesso per ragioni punitive, per essersi rifiutato di raggiungere un accordo sull’orario di lavoro.
Il giudice di primo grado e poi la Corte d’Appello hanno rigettato il ricorso.
Intervenuta la Corte di Cassazione, e ripercorsi i fatti per come accertati, ha preso posizione rispetto al motivo richiamato ovvero a quanto stabilito dall’art. 8, comma 1, D.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 nel quale viene stabilito che “il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, o viceversa, non costituisce giustificato motivo di licenziamento”.
La Suprema Corte chiarisce che se da un lato è certamente indiscutibile ritenere la sussistenza del giustificato motivo oggettivo in caso di rifiuto alla trasformazione del rapporto di lavoro, allo stesso tempo (in presenza di uno stringente onere probatorio a carico del datore di lavoro) non vi è ragione per ritenere illegittimo il medesimo licenziamento se viene dimostrato:
• che sussistano effettive esigenze economiche e organizzative, tali da far venire meno l’esigenza di un dipendete a tempo pieno;
• che vi sia stata una concreta proposta scritta al dipendente, finalizzata alla salvaguardia del rapporto di lavoro e alla prosecuzione delle stesso, e che della medesima il dipendente abbia ben compreso la portata (in termini di successivo esubero);
• che, infine, la riduzione dell’orario di lavoro e il licenziamento siano intimamente connesse, dunque persista una situazione di esubero per impossibilità del datore di mantenere determinati livelli di organico.
CONCLUSIONI
Pertanto, anche in considerazione di quanto riportato dalla Suprema Corte, il datore di lavoro può legittimamente licenziare il dipendente che rifiuta il passaggio al part time dimostrando che tale era l’unica scelta percorribile per la salvaguardia del posto di lavoro e che, diversamente operando, la compagine aziendale non avrebbe avuto più necessità di un dipendente a tempo pieno.
L’esigenza di riduzione dell’orario, almeno in questo caso, consente di superare anche la proposta (o l’impossibilità della proposta) circa l’inquadramento ad un livello inferiore, con un demansionamento concordato, in quanto l’obiettivo prefigurato è una riduzione complessiva dei costi e la sopravvenuta anti-economicità della prestazione.
____
*A cura dell’Avv. Marco Proietti – Foro di Roma