Lavoro

Jobs Act, alla Consulta la mancata previsione della reintegra in caso di insussistenza del giustificato motivo oggettivo

La limitazione di tutela viene ritenuta dal Giudice incompatibile con una serie di norme e principi di rilevanza costituzionale

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di Tommaso Targa e Leonardo Calella*

Con ordinanza 27 settembre 2023, il Tribunale di Ravenna ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, secondo comma, del d.lgs. 23/2015 (uno dei decreti attuativi del c.d. “ Jobs Act ”), nella parte in cui non prevede la reintegrazione in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, anche quando ne sia accertata l’illegittimità per insussistenza della motivazione addotta.

Come noto, infatti, il d.lgs. 23/2015 – applicabile ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 - prevede la reintegrazione solo in caso di licenziamento nullo perché fondato su motivo illecito, o licenziamento disciplinare illegittimo per insussistenza dell’addebito contestato.

La norma incriminata, al primo comma , prevede, invece, nella sua attuale formulazione, un indennizzo economico da 6 a 36 mensilità, come unica conseguenza dell’accertata illegittimità del licenziamento intimato per ragioni oggettive.

Si tratta della forma di tutela, esclusivamente economica, derivante dall’effetto sinergico del “ decreto dignità ” (d.l. 87/2018, n. 87), il quale ha modificato la forbice edittale portandola da 6 a 36 mensilità (mentre originariamente era da 4 a 24) e della sentenza della Corte Costituzionale n. 194/2018, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, primo comma, nella parte in cui individuava nell’anzianità di servizio l’unico parametro di determinazione aritmetica del quantum dell’indennità nell’alveo del cosiddetto contratto a tutele crescenti.

Il giudizio a quo . Il Tribunale di Ravenna deve pronunciarsi in relazione all’impugnazione del licenziamento intimato a un lavoratore dipendente a tempo indeterminato di una impresa di somministrazione di lavoro. Tale impresa – essendo venuto meno il contratto di somministrazione con il cliente ove il ricorrente era stato inviato in missione - ha esperito l’apposita procedura prevista dal CCNL di categoria che prevede un tentativo di ricollocazione del lavoratore, previa riqualificazione professionale. Il lavoratore è stato, quindi, licenziato a fronte della dichiarata assenza di offerte di lavoro compatibili con il suo back ground professionale, con conseguente fallimento del tentativo di ricollocazione.

Ad esito dell’istruttoria - che ha comportato anche l’ordine di esibizione documentale, a carico dell’impresa di somministrazione, di tutti i contratti stipulati nel periodo del licenziamento con clienti ubicati nella zona di residenza del lavoratore – il Giudice ha espresso il convincimento dell’insussistenza del motivo oggettivo addotto.

Difatti, il Giudice ha ritenuto che taluni contratti di somministrazione, stipulati dalla società resistente con i relativi clienti, si riferivano a posizioni lavorative che avrebbero ben potuto e dovuto essere proposte al lavoratore licenziato. Di qui, la rilevanza della questione di legittimità costituzionale perché, applicando la norma del “jobs act” di che si discute, il lavoratore avrebbe diritto esclusivamente a un indennizzo, pur essendo stata accertata l’insussistenza della ragione oggettiva addotta quale GMO.

La limitazione di tutela viene ritenuta dal Giudice rimettente incompatibile con una serie di norme e principi di rilevanza costituzionale.

L’ordinanza di rimessione è molto approfondita. Preliminarmente, riepiloga gli aspetti di fatto e di diritto emersi nel giudizio a quo, onde argomentare la rilevanza della questione di costituzionalità. Indi riepiloga i parametri e i profili di prospettata illegittimità dell’art. 3, secondo comma, del d.lgs. 23/2015, evidenziando che la pronuncia di incostituzionalità della norma non potrebbe essere evitata mediante una interpretazione adeguatrice/costituzionalmente orientata della medesima. Infine, articola i 5 vizi di ritenuta illegittimità, incorrendo in alcune ripetizioni, ma scandagliando tutta la giurisprudenza della Consulta in materia di reintegrazione.

L’ordinanza ritiene anzitutto che la norma incriminata violi, sotto diversi profili, il principio di uguaglianza ex art. 3 Cost.:
• perché viene riconosciuta una tutela ingiustificatamente differente ai lavoratori licenziati per ragioni disciplinari, di cui sia accertata l’insussistenza dell’addebito, rispetto ai lavoratori licenziati per un motivo oggettivo, di cui sia accertata l’insussistenza;
• in relazione alla disparità di trattamento tra i lavoratori ai quali si applica il Jobs Act (perché assunti dopo il 7 marzo 2015) e quelli che ancora beneficiano delle tutele ex art. 18 St. Lav.;
• perché la tutela riconosciuta ai lavoratori licenziati, ai sensi della norma incriminata, è deteriore rispetto ad ogni altro creditore del diritto civile ” (ove il risarcimento per equivalente viene riconosciuto al debitore solo quanto l’esatto adempimento non è possibile, o costituisce un facere infungibile).

In relazione a questi aspetti, sviluppati nel primo vizio denunciato, l’ordinanza ha richiamato le due recenti pronunce della Corte Costituzionale n. 59/2021 en. 125/2022 che hanno dichiarato incostituzionale l’art. 18 St. Lav., come modificato dalla l. 92/2012 (“Legge Fornero”), nella parte in cui prevedeva la reintegrazione solamente in caso di licenziamento per ragioni oggettive manifestamente insussistente; e originariamente la prevedeva come mera possibilità rimessa alla valutazione discrezione del giudice, anziché come conseguenza automatica dell’accertata illegittimità del licenziamento.

Tali sentenze hanno argomentato la dichiarata incostituzionalità dell’art. 18 St. Lav. proprio alla luce della palese discrasia tra la tutela riconosciuta in caso di licenziamento disciplinare dichiarato illegittimo per insussistenza dell’addebito contestato, per cui è sempre prevista la reintegrazione, e licenziamento per giustificato motivo oggettivo, per cui la reintegrazione era inizialmente prevista con le due limitazioni di cui sopra (il Giudice poteva, non doveva, disporre la reintegrazione, e solo in caso di manifesta insussistenza): limitazioni che, per l’appunto, sono state rimosse con le due sentenze della Corte Costituzionale del 2021 e 2022.

Secondo l’ordinanza del Tribunale di Ravenna, il ragionamento della Corte Costituzionale, formulato in relazione all’art. 18 St. Lav., può valere analogamente e a fortiori per il Jobs Act. Viene sottolineato, infatti, che la diversità di tutele consente ad uno scaltro datore di lavoro di eludere il rischio di reintegrazione intimando un licenziamento per insussistenti ragioni economiche, anziché per una altrettanto insussistente motivazione disciplinare, e così facendo prevalere l’ “etichetta formale” sull’accertamento giudiziale. Ne deriverebbe, a detta del Tribunale, la violazione dell’art. 3 Cost. anche sotto il profilo della ragionevolezza, considerato che l’assenza di reintegrazione, in ogni caso di licenziamento per ragioni oggettive, impatterebbe sull’effetto deterrente della sanzione.

Sotto diverso profilo, l’ordinanza ritiene che l’art. 3, secondo comma, del d.lgs. 23/2015 comporti anche una violazione dell’art. 24 Cost. in quanto, precludendo al lavoratore la tutela giurisdizionale che razionalmente gli spetterebbe, finisce per negargli il pieno diritto all’azione.

Un terzo e ultimo gruppo di argomentazioni, sviluppate nel secondo, quarto e quinto vizio denunciati, riguarda l’irragionevolezza della scelta del legislatore “essendo conculcati ingiustificatamente i valori del lavoro (art. 1, 4 1° comma, 35 1° comma Cost.) e della persona (art. 2 Cost.) piegati questi alla necessità dell’impresa (invertendo la dinamica prevista dall’art. 41, 2° comma Cost.)”. Di qui il lamentato “ cattivo uso della discrezionalità legislativa ”, nella parte in cui favorirebbe la posizione delle aziende rispetto a quella dei lavoratori.

Sotto questo profilo, l’ordinanza di rimessione ha, da un lato, dato atto che – per consolidata giurisprudenza della Corte Costituzione (da ultimo espressa proprio con la sentenza n. 134/2018 che è intervenuta sulla determinazione del quantum dell’indennizzo ex art. 3, primo comma, del d.lgs. 23/2015) - la reintegrazione non costituisce l’unica sanzione possibile in caso di licenziamento illegittimo. Dall’altro lato, l’ordinanza si è soffermata sulla sentenza della Corte Costituzionale n. 46/2000, la quale, dichiarando ammissibile il referendum abrogativo dell’art. 18 St. Lav., ha affermato che, in assenza di tale norma, l’ordinamento prevederebbe conseguenze risarcitorie compatibili con i principi costituzionali.

Secondo il Tribunale di Ravenna, il principio affermato dalla Corte Costituzionale nel 2000 sarebbe oramai divenuto “anacronistico” perché “la società si è nel frattempo evoluta e … i principi costituzionali sono stati nel frattempo attuati”. Al fine, l’ordinanza ha ripercorso gli sviluppi della giurisprudenza in materia di risarcimento del danno alla persona, riconosciuto anche in caso di mobbing, evidenziando come sia oramai principio acclarato quello secondo cui, a fronte della “ natura polifunzionale del danno ” (patrimoniale, esistenziale e alla dignità, professionale, biologico), anche le conseguenze sanzionatorie devono essere adeguatamente articolate.

Partendo da tali premesse, il Giudice rimettente ha argomentato che una tutela esclusivamente economica, a fronte di un licenziamento palesemente illegittimo, sarebbe idonea a risarcire solo il danno patrimoniale da lucro cessante (peraltro, potenzialmente in misura parziale, stante la forbice edittale prevista ex lege per il numero di mensilità). Al contrario, resterebbero privi di qualsiasi tutela il danno previdenziale, nonché quello morale, esistenziale e alla professionalità, il cui rimedio sarebbe possibile soltanto mediante la ricostituzione del rapporto di lavoro.

Per ulteriore corollario, il Tribunale di Ravenna ha sostenuto che il concorso sinergico di due rimedi (ricostituzione del rapporto e parziale ristoro economico) sarebbe, invece, compatibile con la costituzione perché, sebbene in misura parziale, interverrebbe su tutte le voci di danno. E qui ha richiamato la sentenza della Corte Costituzionale n. 303/2011 che ha ritenuto costituzionalmente legittimo il tetto all’indennizzo previsto in caso di contratto a termine illegittimo, proprio perché a tale indennizzo si affianca l’accertamento della nullità del contratto a termine e la conseguente condanna al ripristino del rapporto.

Per concludere, l’ordinanza di rimessione ha criticato la tesi secondo cui una generalizzata tutela reintegratoria in caso di licenziamento ostacolerebbe le attività produttive. Al riguardo ha replicato che un’impresa, specialmente se di grosse dimensioni, può crescere e fare utile anche senza necessità di intimare licenziamenti illegittimi: e ciò a maggior ragione se si considera che il giustificato motivo oggettivo può ritenersi sussistente, con conseguente legittimità del licenziamento, anche in assenza di crisi aziendale, ben potendo consistere – per giurisprudenza consolidata – in una riorganizzazione finalizzata a razionalizzare la forza lavoro ed incrementare l’utile.

Volendo formulare una previsione, è plausibile che la Corte Costituzionale si pronunci in linea con le decisioni n. 59/2021 e n. 125/2022 , essendo difficile immaginare una ragione per cui i principi affermati in relazione al licenziamento per ragioni economiche, espressi con riferimento all’art. 18 St. Lav., non debbano valere anche quando il licenziamento è intimato in regime di Jobs Act. Gli altri vizi denunciati sono forse meno incisivi, ma l’accoglimento del primo vizio denunciato assorbirebbe le altre questioni sollevate dal Giudice rimettente.

In caso di pronuncia di illegittimità costituzionale dell’art. 3, secondo comma, del d.lgs. 23/2015, si tratterà poi di capire quale spazio di applicabilità sarà lasciato dalla Consulta al primo comma , ossia per quali vizi sarà ancora possibile escludere la reintegrazione a fronte della accertata illegittimità del licenziamento per ragioni oggettive. È possibile che questo spazio sia lasciato ai casi in cui, pur sussistendo il motivo addotto, il datore di lavoro non ha poi adeguatamente assolto all’obbligo di repechage, oppure ha esercitato arbitrariamente la scelta del lavoratore da licenziare, preferendo conservare il posto di lavoro di altri colleghi con mansioni analoghe.
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*A cura degli avv.ti Tommaso Targa e Leonardo Calella, Trifiro’ & Partners - Avvocati

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