Professione e Mercato

L'avvocato deve spiegare l'udienza al cliente, anche se questi era presente

Per il Cnf, il dovere di informazione dell'avvocato nei confronti del cliente riguarda anche l'udienza alla quale lo stesso abbia personalmente partecipato, perchè le attività forensi sono di difficile interpretazione agli occhi di una persona non esperta del settore

di Marina Crisafi

L’avvocato è tenuto a fornire al proprio assistito informazioni chiare, intellegibili ed esaustive, e tale dovere non viene meno solo perché relative ad eventi cui lo stesso cliente abbia personalmente partecipato, come un’udienza del processo, «giacché, agli occhi di una persona non esperta del settore, le attività forensi sono comunque di difficile interpretazione». Lo ha sancito il Consiglio Nazionale Forense con la sentenza n. 207/2022 (depositata il 21 marzo 2023 sul sito del codice deontologico), rigettando il ricorso di un avvocato avverso il provvedimento disciplinare che gli irrogava la sanzione della censura, per aver commesso una serie di violazioni deontologiche.

I fatti

I fatti traevano origine da più esposti nei confronti dell’incolpato, aventi ad oggetto, a vario titolo, comportamenti rilevanti a livello disciplinare. Tra questi: l’aver violato il dovere di corretta informazione al cliente; di adempiere correttamente al mandato conferito e di fornire al cliente le note dettagliate dei compensi richiesti; di soddisfare le prestazioni affidate ad altro collega; di salvaguardare il rapporto di colleganza (ecc.).

Con singoli provvedimenti il COA di Milano deliberava, per tutti i fatti contestati, di rinviare a giudizio disciplinare il ricorrente, all’esito del quale veniva irrogata la sanzione della censura.

L’avvocato ricorreva al CNF lamentando di essere stato sanzionato per comportamenti inesistenti o comunque diversi da quelli contestati e chiedendo di annullare e/o riformare la decisione adottata dal COA di Milano con conseguente assoluzione da ogni addebito, ovvero, in subordine, di ridurre la sanzione inflitta.

Il CNF dichiarava il ricorso inammissibile perché tardivo e il legale adiva la Cassazione la quale cassava la decisione ritenendo il ricorso tempestivo. La questione veniva quindi riassunta dallo stesso professionista dinanzi al Consiglio riproponendo esattamente le medesime doglianze avverso il provvedimento del COA che gli aveva irrogato la sanzione della censura, nonché la richiesta di annullamento della sanzione o in subordine l’applicazione di una sanzione minore.

La decisione

Per il CNF, tuttavia, il ricorso è infondato e non può trovare accoglimento.

In via generale, premette il Consiglio, seppur con una motivazione stringata il COA di Milano, «ha correttamente inquadrato ed esaminato, nel loro complesso, i fatti oggetto delle vicende disciplinari pervenendo, quindi, una volta acclarati i comportamenti deontologicamente scorretti da parte dell’incolpato, ad una giusta decisione».

La decisione, infatti, pur non particolarmente articolata nella sua motivazione, «contiene sufficienti elementi per poterla considerare corretta e, quindi, confermarla».

Ad ogni buon conto, secondo consolidata giurisprudenza, osserva il CNF, «anche in tema di procedimento disciplinare a carico degli avvocati, il giudice non ha l’obbligo di confutare esplicitamente le tesi non accolte né di effettuare una particolareggiata disamina degli elementi di giudizio non ritenuti significativi, essendo sufficiente a soddisfare l’esigenza di adeguata motivazione che il raggiunto convincimento risulti da un esame logico e coerente, non di tutte le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, bensì di quelle ritenute di per sé sole idonee e sufficienti a giustificarlo».

In altri termini, «non si richiede al giudice del merito di dar conto dell’esito dell’avvenuto esame di tutte le prove prodotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettategli, ma di fornire una motivazione logica ed adeguata dell’adottata decisione, evidenziando le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragarla, ovvero la carenza di esse» (ex multis Cass. SS.UU. n. 6277/2019).

Ad avviso del Collegio, dunque, non c’è dubbio sulla conferma del complessivo giudizio di colpevolezza in ordine alle condotte contestate, avendo il ricorrente violato una serie di precetti deontologici, che, seppur il COA di Milano non ha specificato, indicando per ogni condotta quale articolo del CDF fosse stato all’epoca violato, in base alle contestazioni avanzate all’incolpato e all’esame degli atti e delle risultanze istruttorie, il Consiglio è in grado di individuare.

A tal proposito, osserva ulteriormente il Collegio, «l’omessa indicazione della norma violata non comporta alcuna conseguenza in ordine alla validità dell’incolpazione o del procedimento, purché sia stato ben specificato il comportamento da censurare», come avvenuto nel caso di specie.

Infatti, a differenza di quanto sostenuto dal ricorrente, le emergenze istruttorie, hanno evidenziato, quanto meno per cinque capi di incolpazione, le responsabilità dell’incolpato, il quale sebbene vi abbia posto rimedio in alcuni casi, non può ritenersi privo di qualsivoglia responsabilità disciplinare.

Quanto, nello specifico, al dovere di corretta informazione al cliente, conclude il CNF, «ai sensi dell’art. 27 cdf (già art. 40 codice previgente), l’avvocato deve fornire al cliente informazioni chiare, intellegibili ed esaustive, e tale dovere non viene meno sol perché relative ad eventi cui lo stesso cliente abbia personalmente partecipato (nella specie, un’udienza del processo) giacché, agli occhi di una persona non esperta del settore, le attività forensi sono comunque di difficile interpretazione, quanto meno in ordine alla loro portata ed ai loro effetti» (ex multis Cnf, n. 179/2018).

Da qui il rigetto del ricorso.

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