Professione e Mercato

Neurotecnologie tra diritti umani e libertà civili

Una riflessione sull’inedita frontiera legale rappresentata dalle emergenti minacce all’autonomia umana: neuromarketing e neuropolitica

INTRODUZIONE

(di Nicoletta F. Prandi)

Mano a mano che il cervello, con i suoi correlati cognitivi, dimostra di avere sempre meno segreti per i professionisti del neuromarketing, il rischio di erodere la libertà di scelta dell’individuo aumenta esponenzialmente. Anche nel segreto dell’urna elettorale.

La crescente diffusione delle neurotecnologie e delle interfacce cervello-computer, il cui mercato nei soli Stati Uniti ha un valore stimato di 400 miliardi di dollari (fonte: PatentVest) obbliga il legislatore ad affrontare una sfida, prima ancora che regolatoria, profondamente umana.

L’articolo di Harry Lambert ci invita a riflettere su questa inedita frontiera legale. Per coglierne il peso basti ricordare le parole con cui le Nazioni Unite, in un recente rapporto, hanno definito le interfacce cervello-computer, sostenendo che «possono danneggiare o interrompere il delicato equilibrio della psiche umana».

Capiamo meglio, allora, il contesto in cui ha fatto capolino la neuropolitica, che sfrutta i principi neuroscientifici alla base dei comportamenti d’acquisto e li applica alle scelte elettorali. Un partito messicano, alle elezioni del 2015, ha modificato in tempo reale i messaggi di un pannello elettorale digitale sulla base delle reazioni dei passanti, rilevate in diretta da una telecamera nascosta.

La faccenda è finita in tribunale. E, leggendo Lambert, la sensazione è che il lavoro per gli avvocati, nella sfera della neuropolitica, sia solo all’inizio.

________

NEUROTECNOLOGIE TRA DIRITTI UMANI E LIBERTÀ CIVILI

(di Harry Lambert)

Quale impatto ha lo sviluppo di neurotecnologie sul nostro libero arbitrio e sul senso del sé?

Il neuromarketing e la neuropolitica impiegano strategie che sfruttano il cervello, influenzando inconsciamente le preferenze dei consumatori o degli elettori senza che questi ne siano consapevoli. La regolamentazione in questi ambiti è dunque cruciale per tutelare i diritti umani nell’ambito delle sfide mosse da una tecnologia di frontiera.

Il 2024 è stato l’anno delle elezioni: ha votato quasi la metà della popolazione mondiale, inclusi otto dei dieci Paesi più popolati. L’influenza crescente dell’intelligenza artificiale sugli elettori è ormai giunta a un punto tale cheTristan Harris, co-fondatore del Center for Humane Technology, ha definito le elezioni statunitensi del 2024«le ultime elezioni umane». Eppure, ancora una volta, le implicazioni delle neurotecnologie paiono essere passate inosservate, motivo per cui ce ne occupiamo in questo articolo.
Riflettiamo sull’autonomia dell’agire umano nella sfera elettorale e sul diritto di pensare e di agire liberi da influenze, interferenze o vincoli.

Quali sono i problemi?

Niente potrebbe essere più importante per il nostro concetto di «sé» dei nostri stessi pensieri: costituiscono il nucleo della nostra identità e della nostra autopercezione. Modellano il modo in cui interpretiamo le nostre esperienze, interagiamo con il mondo e costruiamo le nostre convinzioni e i nostri valori. Per dirla con Cartesio, è davvero un caso di cogito ergo sum. Ogni nostra interazione con il mondo avviene per mezzo di impulsi elettrici che chiamiamo «pensiero». È ovvio, ma non per questo meno sorprendente. Dobbiamo, allora, procedere con molta cautela prima di aggiungere un intermediario in silicone a questo processo, che ha funzionato piuttosto bene per diversi milioni di anni. Anche il recente rapporto delle Nazioni Unite su neurotecnologie e diritti umani ha evidenziato che «le neurotecnologie influenzano i diritti umani in modo unico».

Non è un’esagerazione. Negli ultimi anni si è accumulato un crescente numero di prove sul fatto che le interfacce cervello-computer (BCI) possono alterare la personalità dell’utente o il senso della propria identità. Si vedano ad esempio gli articoli Neurotechnologies and Identity Changes: What the Narrative View Can Add to the Story (AJOB Neuroscience, Volume 14, Numero 1, 2023) e From neurorights to neuroduties: the case of personal identity (Bioethics Open Research, 2024).

Entrambi approfondiscono in modo affascinante le complessità di come le BCI possano influenzare non solo le funzioni cognitive, ma anche il tessuto stesso dell’identità personale, mediando cambiamenti nei tratti della personalità, nell’immagine di sé e nel modo in cui gli individui si relazionano ai propri pensieri e alle proprie esperienze. Il rapporto delle Nazioni Unite lo spiega con queste parole: le neurotecnologie possono «danneggiare o interrompere il delicato equilibrio della psiche umana».

L’analisi della profonda connessione tra i nostri pensieri e l’essenza di ciò che siamo, insieme a quella delle implicazioni che tali tecnologie possono avere per il senso di sé, è sempre più necessaria. In breve, la risposta alla domanda su quali siano i problemi, è questa: i dubbi su cosa significhi ormai essere umani.

Minacce all’autonomia umana: neuromarketing e neuropolitica

Il neuromarketing sfrutta le conoscenze acquisite dalle neurotecnologie per esplorare e prevedere il comportamento dei consumatori. Tecniche di imaging avanzate come la risonanza magnetica funzionale (fMRI) e l’elettroencefalografia (EEG) sono comunemente impiegate per analizzare la risposta del cervello degli individui a stimoli di marketing, come pubblicità o product placement. La fMRI rileva variazioni del flusso sanguigno in diverse regioni del cervello, correlate all’attività neurale, e identifica quali aree specifiche vengono attivate durante l’esposizione alla pubblicità. Ad esempio, gli studi di fMRI possono mostrare un’attività aumentata nell’area ventrale (associata all’elaborazione della ricompensa) quando i consumatori sono esposti a pubblicità che suscitano emozioni. L’EEG, invece, misura l’attività elettrica lungo il cuoio capelluto e aiuta a definire la rapidità e l’intensità con cui un consumatore reagisce agli stimoli pubblicitari.

Secondo numerosi studi, specifici modelli di onde cerebrali - come l’aumento delle onde theta - possono indicare un coinvolgimento più profondo o un’eccitazione emotiva, sempre innescati da pubblicità accattivanti.

Questa comprensione dettagliata delle risposte neurali consente ai professionisti del marketing di elaborare strategie che attingono persino al subconscio delle persone e di influenzare le loro preferenze senza che ne siano consapevoli. I pericoli sono inequivocabili. Consistono nella minaccia di erodere l’autonomia individuale e la capacità di deliberare scelte maturate in piena libertà.

Il rischio è anche quello di alimentare una cultura consumistica che rispecchi esclusivamente i social media, in cui i «sequestri limbici» finiscono con l’avere la priorità rispetto al processo decisionale razionale. Come membro del Centre for Neurotechnology & Law, Matt Qvortrup osserva nel suo innovativo libro The Political Brain: The Emergence of Neuropolitics (Central European University Press, 2024) che gli stessi principi neuroscientifici che influenzano la scelta di un prodotto piuttosto che di un altro possono essere sfruttati in ambito politico per influenzare i risultati elettorali. Benvenuti nel mondo della neuropolitica!

L’analisi in tempo reale delle reazioni degli elettori non è una novità. Nel 2015, un partito politico in Messico si trovò coinvolto in una controversia legale per aver utilizzato neurotecnologie in campagna elettorale. In un cartellone pubblicitario digitale era stata inserita una telecamera, che catturava le reazioni spontanee dei passanti. Queste reazioni venivano elaborate tramite un algoritmo e permettevano di adattare il messaggio in tempo reale, per usare le varianti più efficaci. Allo stesso modo, consulenti di neuropolitica come Maria Pocovi usano tecniche biometriche avanzate per hackerare le risposte subconsce degli elettori. Pocovi, fondatrice dell’Emotion Research Lab, impiega strumenti che mappano le espressioni facciali e tracciano i movimenti oculari, con l’obiettivo di attingere alle emozioni che guidano il processo decisionale ma che restano inespresse (si veda l’articolo di Elizabeth Svoboda The “neuropolitics” consultants who hack voters’ brains, MIT Technology Review, 2018).

Altri studi hanno inoltre scoperto che l’identità sociale e i pregiudizi all’interno di un gruppo possono essere osservati come risposte neurali specifiche.

La preoccupazione è che, sfruttando le tecniche di neuroimaging e i risultati dell’analisi comportamentale, i soggetti politici minino la capacità individuale di pensiero critico. Tali tecniche amplificano e al tempo stesso sfruttano le risposte emotive, impedendo di fatto un impegno critico nei confronti delle questioni politiche.

Le implicazioni vanno oltre le elezioni, poiché i Governi fanno sempre maggiore ricorso alle leve emotive nella comunicazione pubblica, sapendo che il sentiment è plasmato meno da discorsi razionali e più da narrazioni social cariche di emozioni.

Un altro parallelo con i social media è la polarizzazione. I principi del neuromarketing vengono probabilmente utilizzati per creare pubblicità mirate che sfruttano bias cognitivi, come l’effetto framing o l’avversione alla perdita. Questi bias possono indurre gli elettori a favorire narrazioni che rafforzano le loro convinzioni preesistenti, scoraggiando al contempo l’analisi critica di punti di vista opposti. Se i social media generano prospettive polarizzate, sono le neurotecnologie che potrebbero rischiare di radicarle. La minaccia non riguarda quindi solo l’individuo e il sé a livello micro, ma anche il tessuto sociale e l’integrità del processo democratico a livello macro.

L’assenza di regolamentazione in questi ambiti evidenzia l’importanza cruciale della tutela dei diritti umani ed è a questo dilemma che ora rivolgiamo la nostra attenzione.

Diritti umani: due scuole di pensiero

Esistono due ampie scuole di pensiero nel mondo accademico: coloro che ritengono che l’attuale quadro normativo sui diritti sia sufficiente per affrontare le minacce poste dal neuromarketing e dalla neuropolitica, e coloro che ritengono che debba essere aggiornato per includere specificamente i neurodiritti.

Il punto di partenza è che la libertà di pensiero è già espressamente tutelata da numerosi trattati internazionali, tra cui l’art. 9 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, l’art. 13 della Convenzione americana sui diritti dell’uomo, l’art. 30 della Carta araba dei diritti dell’uomo e l’art. 18 del Patto internazionale sui diritti civili e politici. Intellettuali come Susie Alegre sostengono che l’attuale quadro giuridico tuteli adeguatamente l’autonomia personale. Inoltre, si potrebbero considerare i dati cerebrali sostanzialmente non diversi da altre forme di dati biologici raccolti in tempo reale, come le informazioni cardiache registrate da Fitbit, già soggette a tutele giuridiche esistenti. Di conseguenza, secondo questo filone di pensiero, utilizzare i quadri giuridici esistenti anziché formulare nuovi diritti potrebbe offrire una soluzione più rapida, flessibile ed efficace.

Altri osservano che, utilizzando l’espressione «libertà di pensiero», i trattati internazionali di cui sopra, scritti molto prima dell’era delle neurotecnologie, riguardano in sostanza la libertà di espressione: l’articolo 9, ad esempio, è un diritto relativo piuttosto che assoluto, difficile da conciliare con la sua applicazione all’autodeterminazione fondamentale.

I sostenitori di questa corrente di pensiero fanno riferimento al rapporto del Relatore Speciale sulla libertà di religione o di credo presentato all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2021, che ha chiesto un’ampia comprensione della libertà di pensiero al di là del suo tradizionale mandato. Osservano inoltre che la formulazione di alcune tutele dei diritti umani pone l’accento sulla protezione contro le interferenze (attive) piuttosto che sul monitoraggio (passivo).

Un altro grande nome, Andrea Lavazza, sostiene quindi la creazione di un nuovo diritto all’integrità mentale, che tutelerebbe il controllo di un individuo sul proprio stato mentale e sui propri dati cerebrali, in modo che «senza il suo consenso, nessuno possa leggere, diffondere o alterare tali stati e dati al fine di condizionare l’individuo» (Lavazza, Freedom of thought and mental integrity: The moral requirements for any neural prosthesis, Frontiers in Neuroscience 12: 82, 2018).

In quanto tale, il diritto all’integrità mentale non comprenderebbe solo la privacy e l’autodeterminazione, ma si estenderebbe anche oltre la mera protezione contro le intrusioni. Di conseguenza, la portata proposta di questo diritto è più ampia rispetto alla definizione proposta da Ienca e Andorno. Un compromesso, forse, è la posizione adottata da Nita Farahany. Sostiene un diritto alla libertà cognitiva riconosciuto a livello internazionale, che comprenda:

(1) la privacy mentale;

(2) la libertà di pensiero; e

(3) la libertà di autodeterminazione.

Tuttavia, ritiene che il riconoscimento di tale diritto non richieda l’emanazione di una nuova legge in quanto tale, ma semplicemente un aggiornamento mediante chiarimenti o linee guida che integrino la legislazione vigente.

La posizione di Farahany è, in sostanza, adottata dall’ONU nel suo recente rapporto. Sottolineando che «la libertà di pensiero non ammette alcuna interferenza e deve essere tutelata incondizionatamente», le Nazioni Unite di fatto rifiutano di considerare il rischio che la scuola di pensiero Lavazza abbia ragione e che vi siano lacune nella tutela. Il rapporto avverte che a livello nazionale le risposte sono disomogenee, che «esiste un mosaico incoerente di normative o politiche frammentate» e propone un «documento di soft law con principi guida per aiutare gli Stati a coordinare un approccio coerente in materia di diritti umani quando affrontano le nuove sfide».

Un’invasione ingiustificata?

Qualunque sia la teoria accademica corretta, sussistono comunque problemi pratici. Ad esempio, lo Human Rights Act del 1998 è mirato solo alle entità statali e quindi non raggiunge proprio quegli attori che hanno più urgente bisogno di essere limitati: le aziende private.

In assenza di riforme legislative, gli avvocati devono essere creativi. Forse il principio Von Hannover (Von Hannover contro Germania, 2004) che ha favorito la graduale emersione dell’uso improprio di informazioni private a partire dall’HRA del 1998, aprirà la strada a nuove cause d’azione incentrate sull’autonomia.

Fino ad allora, o fino al documento di soft law previsto dalle Nazioni Unite, ci troveremo di fronte a significative lacune normative e incertezze in materia di diritti umani. Fino ad allora, la decisione su ciò che le aziende e i partiti politici possono e non possono fare al nostro cervello sarà deciso dalla stessa forza che decide tutto il resto:non l’etica, non un dibattito maturo, non la regolamentazione delle buone idee, ma il mercato.

_______

*Fabrizio Ventimiglia, Avvocato penalista, Presidente CSB e Founder Studio Legale Ventimiglia; Nicoletta Prandi, Giornalista ed Autrice; Prof. Harry Lambert, barrister, founder Cerebralink e The Center for Neurotechnology and Law

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©