L’avvocato di uno studio associato non può affermare un rapporto di lavoro subordinato
Il vincolo dell’esclusiva del componente non socio, il foglio presenze autonomamente compilato dal professionista e l’organizzazione delle ferie non sono segnali della subordinazione, che è tra l’altro condizione lavorativa incompatibile con la professione legale
La Corte di cassazione ha respinto tutti i motivi con cui l’avvocato di uno studio associato pretendeva il riconoscimento delle tutele garantite ai lavoratori subordinati contro lo scioglimento del rapporto di lavoro con lo studio associato cui apparteneva.
Con la sentenza n. 28274/2024 la sezione Lavoro della Suprema Corte ha respinto il ricorso del legale che pretendeva la reintegrazione nel suo posto di lavoro e il risarcimento dei danni, dopo che gli era stata comunicata la fine della sua collaborazione da parte dei soci dello studio legale.
In primis, la Cassazione civile fa rilevare come sugli iscritti all’albo professionale degli avvocati gravi l’incompatibilità di erogare la prestazione in forma subordinata. Tant’è vero che nel caso in cui un avvocato acceda a un impiego subordinato egli viene sospeso dall’attività professionale per tutto il tempo corrispondente alla sua condizione di lavoratore subordinato.
Al di là di questa premessa va rilevato come i giudici di legittimità abbiano respinto tutti gli argomenti difensivi secondo i quali sarebbe emersa e provata la condizione della subordinazione del ricorrente nei suoi rapporti con i titolari soci dello studio legale.
Il vincolo dell’esclusiva - a differenza di quanto sostenuto col ricorso - non comporta assolutamente una sovraordinazione dei soci sul componente non socio. Anzi, secondo la Cassazione risponde a una giustificata esigenza di evitare eventuali conflitti d’interesse in capo al singolo componente tra la clientela dello studio associato di appartenenza e gli eventuali altri clienti che il professionista possa acquisire a un portafoglio “personale di assistiti”.
Ad avviso della Corte di legittimità non emerge neanche un forte potere conformativo del “datore di lavoro” (cioè lo studio associato) dal fatto che i singoli avvocati dello studio fossero tenuti a concordare o a confrontarsi in ordine alle scelte da adottare nel patrocinare le cause loro assegnate. Ciò è frutto della natura associativa della prestazione resa da ogni componente. Infatti, ciò che emerge nell’incarico professionale dato da un cliente è l’entità dello studio associato che non può che esprimere una linea difensiva concordata o almeno condivisa. Tra l’altro, come appurato, il ricorrente non era tenuto ad adottare linee difensive eterodirette, cioè imposte dai soci. Il professionista quindi godeva di quella autonomia tecnica propria delle categorie delle professioni ordinamentali. A riprova che il suo andava qualificato, come per sua natura, lavoro autonomo.
Sull’aspetto organizzativo delle ferie, affidato alla regia comune dello studio, la Cassazione esclude che vi sia segno di subordinazione nella previsione di assenze concordate tra i componenti dello studio. Si tratta, al contrario, di una legittima previsione e garanzia di presenze, finalizzata solo a un’autorganizzazione mirata a garantire la continuità delle prestazioni professionali erogabili dallo studio associato.
Infine, la Cassazione ha respinto l’argomento del ricorso che sottolineava come sintomo di subordinazione la previsione di una voce retributiva fissa a vantaggio di tutti gli avvocati partecipanti allo studio. Tale fisso - come spiega la Cassazione - non è sintomo di subordinazione bensì di partecipazione ai risultati delle attività professionali rese in nome dello studio associato onnicomprensivamente considerate.