Lavoro

L'illegittimità del licenziamento intimato se il lavoratore rifiuta la trasformazione del rapporto di lavoro da part time a full time

Nella vicenda concreta arrivata al vaglio della Corte di Cassazione, il prestatore di lavoro aveva impugnato il licenziamento comminato dall'Università datrice di lavoro invocando l'assenza ingiustificata del dipendente, all'esito della trasformazione del rapporto di lavoro di questi da tempo pieno a tempo parziale, mutamento al non aveva aderito il dipendente medesimo

di Daria Gallinari *

Il tema della legittimità del licenziamento del dipendente che rifiuta la trasformazione del rapporto di lavoro da part time a full time è stato oggetto di un recente intervento della Suprema Corte che si è pronunciata a riguardo con la sentenza n. 15999 del 18.05.2022.

I Giudici di Legittimità, dopo aver ricordato i riferimenti normativi e i principi enunciati anche a livello comunitario sul punto, hanno ritenuto che non può essere considerato legittimo il recesso datoriale del lavoratore che si fondi esclusivamente sul rifiuto di questi di accettare la trasformazione del suo rapporto di lavoro da full time a part time.

Nella vicenda concreta arrivata al vaglio della Corte di Cassazione, il prestatore di lavoro aveva impugnato il licenziamento comminato dall'Università datrice di lavoro invocando l'assenza ingiustificata del dipendente, all'esito della trasformazione del rapporto di lavoro di questi da tempo pieno a tempo parziale, mutamento al non aveva aderito il dipendente medesimo.

Il Giudice di secondo grado, investito del gravame, aveva ritenuto legittima l'iniziativa dell'Azienda, in considerazione della correttezza formale del provvedimento che era intervenuto a modificare le modalità di esecuzione oraria del rapporto di lavoro e rigettato le domande del lavoratore.

Di diverso avviso invece la Suprema Corte, investita del giudizio conclusivo, che ha ritenuto di riformare la pronuncia della Corte d'Appello e di annullare il recesso di parte datoriale, cogliendo l'occasione per fare il punto sui principi rilevanti in materia, rammentando che la modifica unilaterale dell'orario di lavoro ha in primo luogo finalità e obiettivo di maggior favore per il lavoratore.

La pronuncia oggetto di commento in questa sede ha richiamato, in relazione all'esecuzione della prestazione di lavoro secondo la modalità part time, il disposto dell'art. 6 del d.lgs. 81/2015 , secondo il quale "il rifiuto del lavoratore di concordare una variazione dell'orario di lavoro non costituisce giustificato motivo di licenziamento", principio questo che era stato oggetto di pari enunciazione anche nella precedente normativa sul part-time.

Altresì, secondo i Giudici di legittimità, la predetta disposizione deve essere letta alla luce delle indicazioni fornite sul tema dall'Unione Europea che ha previsto l'unilateralità del rientro dal part time al full time nell'esclusivo interesse del lavoratore.

Da ciò ne deriva che ogni cambiamento dell'orario di lavoro - sia il passaggio da part-time a full time o viceversa, sia una variazione della fascia oraria del part-time – deve rimandare all'accordo delle parti e, dunque, presupporre il consenso del lavoratore.

Tale manifestazione di volontà deve inoltre formarsi in maniera libera e dunque senza condizionamenti legati al timore di ripercussioni successive e financo della cessazione del rapporto di lavoro per volontà dell'Azienda.

L'adesione del lavoratore deve altresì essere spontanea e dunque non resa per il timore che intervenga la cessazione del rapporto di lavoro.

Conseguentemente, deve essere qualificato come illegittimo, il licenziamento che costituisce una ritorsione del datore di lavoro nei confronti del dipendente che non ha accettato una proposta di modifica dell'orario di lavoro.

Ed è alla luce di tali considerazioni che la Corte di Cassazione ha ritenuto di accogliere il ricorso del dipendente e di dichiarare l'illegittimità del licenziamento intimato sulla sola base del rifiuto ad ottemperare ad una disposizione unilaterale di trasformazione del rapporto.

E tali rilievi valgono, in considerazione della peculiare ratio di tutela che li anima, sia nell'ipotesi di rapporto di lavoro di matrice pubblica che di natura privata.

Il decisum della Suprema Corte consente anche di svolgere delle considerazioni ulteriori.

La giurisprudenza ha infatti specificato in più occasioni che il divieto di cui all'art. 8, D.Lgs. 81/2015 già citato non introduce un divieto assoluto, dovendo essere interpretato con ragionevolezza e buona fede e dunque essere considerato operante a tutti gli effetti quando il licenziamento sia correlato unicamente al rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione secondo le nuove modalità.

Di natura differente l'ipotesi in cui tale rifiuto rimandi ad esigenze oggettive e organizzative che non consentono il mantenimento del ruolo.

E' dunque possibile affermare che è illegittimo il licenziamento (che assume un connotato sostanzialmente disciplinare, se non addirittura ritorsivo) motivato dal fatto puro e semplice del rifiuto del lavoratore rispetto alla modifica dell'orario di lavoro proposta dall'azienda.

Può invece essere considerato legittimo il licenziamento intimato che si fondi su un giustificato motivo oggettivo quando le mansioni del lavoratore, nella fascia oraria concordata, sono venute meno, con tutto ciò che ne deriva e consegue in punto impossibilità di occupare il dipendente diversamente altrove.

La valutazione in concreto non può che essere fatta caso per caso, considerando ogni specifico aspetto della fattispecie di volta in volta oggetto di esame.

* di Daria Gallinari, avvocato giuslavorista e partner di Compendium S.p.A

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