Lavoro

La Cassazione estende l'obbligo di repechage anche alle posizioni di lavoro future

Si dovrà rendere conto anche di quelle posizioni che, sebbene ancora occupate, si renderanno disponibili in un arco temporale del tutto prossimo alla data in cui viene intimato il recesso

di Marco Proietti

In una recentissima decisione la Corte di Cassazione ( sentenza n. 12132/2023 emessa in data 8.5.2023 ) ha fornito una nuova, e più estensiva, interpretazione del c.d. obbligo di repechage previsto per le aziende in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ampliando la portata di tale obbligo anche a circostanze future ma prevedibili al momento dell'intimazione del recesso; trattandosi di un istituto che nasce in sede giurisprudenziale, e che non ha mai trovato formalizzazione in un atto normativo nazionale o europeo, l'intervento della Cassazione, per altro in termini così estensivi, è destinato ad avere un peso specifico nei contenziosi, ed ha già iniziato ad essere oggetto di discussione tra gli esperti di diritto del lavoro.

Prima di capire la portata della sentenza è opportuno analizzare che cosa intendiamo quando parliamo di repechage nell'ordinamento italiano.

UN BREVE CENNO SUL REPECHAGE

Il repechage (ovvero, il ripescaggio) è un obbligo di costruzione giurisprudenziale, posto a carico del datore di lavoro che procede al licenziamento individuale di un dipendente, per giustificato motivo oggettivo ovvero quello determinato "da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa" (art. 3, legge 15 luglio 1966 n. 604); l'azienda può procedere al licenziamento, economico, di un dipendente per vari ragioni quali la soppressione del posto di lavoro, una diversa organizzazione dei reparti (e delle mansioni) all'interno della propria struttura, oppure anche la necessità di maggiore margine economico come riportato da alcune recenti posizioni proprio della Cassazione.

Per avere un licenziamento legittimo, che quindi non possa comportare un ordine di reintegrazione o un risarcimento del danno (a seconda del tipo di tutela che si applica), il datore di lavoro dovrà accertarsi che alla data del recesso intimato al lavoratore non esistano altre posizioni di lavoro equivalenti in azienda ove lo stesso potesse essere utilmente inserito secondo un criterio orizzontale; dopo la modifica dell'art. 2103 cod. civ., e l'ampliamento del concetto di categoria legale, in giurisprudenza la posizione prevalente è stata quella di richiedere una verifica anche relativamente alle mansioni inferiori e anche alla riduzione dell'orario di lavoro, al fine di escludere definitivamente che il datore di lavoro non avesse altra soluzione che quella del licenziamento.

Questa previsione cosi estesa, seppur totalmente giurisprudenziale, è ispirata all'idea che il licenziamento rappresenti comunque la extrema ratio e che il posto di lavoro debba essere tutelato in ogni modo.

In questo senso, per altro, l'onere della prova è molto rigido. Il datore di lavoro dovrà allegare tutta la documentazione e gli elementi di fatto necessari a corroborare la propria tesi, dunque a dimostrare che altre posizioni di lavoro non fossero comunque presenti o che, a fronte di una proposta di diverso collocamento, sia stato il lavoratore stesso ad aver rinunciato alle nuove mansioni appartenenti o meno alla medesima categoria legale inziale. Chiaramente tale orientamento ha portato all'affermarsi della regola di un equilibrato contemperamento, in materia, tra gli interessi del datore di lavoro e quelli del lavoratore, in un'ottica solidaristica e di buona fede nei relativi rapporti (ad. es. Cass. 2/8/2001 n. 10574 , pres. Saggio, est. Cellerino): in questo senso, infatti, anche il lavoratore deve fornire una valida collaborazione e in un eventuale giudizio indicare quelle posizioni di lavoro libere, o presumibilmente libere, nelle quali avrebbe potuto essere utilmente inserito da parte dell'azienda.

In linea di massima, quindi, senza la prova dell'impossibilità di una diversa collocazione, il licenziamento è illegittimo e le conseguenze saranno quelle applicabili a seconda della
dimensione aziendale.

COSA SUCCEDE CON LE ASSUNZIONI FUTURE?

Il repechage si è modificato nel corso degli anni ed ha progressivamente ampliato la propria portata di azione.

Prima ancora dell'intervento della Cassazione con la sentenza 12132/2023 in commento, da tempo la giurisprudenza di legittimità e di merito si era uniformata nel ritenere illegittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo se seguito da nuove assunzioni, in grado di decostruire la base fondante del recesso stesso: sia nel caso di assunzioni relative a medesime mansioni o inquadramento, sia nel caso di assunzione in altri reparti ma in grado di confutare le ipotesi di riorganizzazione o di crisi aziendale, in tutti questi casi il lavoratore otterrebbe la tutela (obbligatoria o reale) in quanto il licenziamento sarebbe privo del giustificato motivo oggettivo.

Si ritiene congruo valutare le assunzioni perfezionate nell'arco dei 6 mesi successivi al recesso, tenuto conto anche di eventuali preliminari di assunzione eventualmente sottoscritti prima o durante le fasi di licenziamento.

In questo punto si innesta la sentenza di cui stiamo parlando.

IL NUOVO ORIENTAMENTO DELLA CASSAZIONE

Si tratta di un nuovo e ulteriore ampliamento dell'obbligo di repechage che investe anche le possibili posizioni future che verranno a liberarsi in azienda: in motivazione si legge che la condotta datoriale, ovviamente, debba essere "improntata a buona fede e correttezza nel verificare in concreto l'esistenza nella sua organizzazione di posizioni disponibili a cui adibire il lavoratore il cui posto sia stato soppresso" e per tale ragione si dovrà rendere conto anche di quelle posizioni che, sebbene ancora occupate, si renderanno disponibili in un arco temporale del tutto prossimo alla data in cui viene intimato il recesso, considerando anche le riorganizzazioni aziendali in corso d'opera.

Nel caso di specie, al momento dell'intimazione del licenziamento, il datore di lavoro non aveva tenuto conto delle dimissioni rassegnate da due dipendenti che svolgevano mansioni analoghe a quelle del dipendente, con un termine di preavviso destinato a concludersi in un arco temporale brevissimo e con conseguente necessità di provvedere alla loro sostituzione.

La sentenza è destinata a far discutere.

Il datore di lavoro si troverebbe di fronte ad un onere probatorio estremamente penetrante con riguardo all'organizzazione aziendale, e piuttosto difficile da fornire. Infatti, dimostrare la mancata assunzione nei 6 mesi successivi risulta agevole, perché la semplice produzione del Libro Unico del Lavoro consente al datore di superare ogni ostacolo, ad eccezione delle situazioni limite in cui vengono ad essere intraprese collaborazioni autonome o non contrattualizzate (quindi lavoro in nero) che richiederanno però un accertamento da parte del giudice circa la loro rilevanza rispetto alle mansioni soppresse; diversamente, ampliare il repechage anche alle posizioni future comporta il superamento del principio seguito sino ad oggi, e per il quale si doveva cristallizzare la situazione al momento del recesso, volgendo lo sguardo verso quelle posizioni di lavoro di cui è imminente la disponibilità.

A questo punto resta da chiederci cosa può intendersi per disponibilità "imminente" atteso che l'unica situazione analizzata dalla sentenza ha avuto riguardo alle dimissioni già rassegnate da parte di altri dipendenti: inoltre, appare piuttosto radicale il ragionamento svolto dalla Cassazione nel ritenere che, una volta liberati uno o più posti di lavoro, necessariamente l'imprenditore abbia interesse a sostituirli.

Il giudice del lavoro finirebbe con il sostituirsi all'imprenditore nel verificare se le professionalità mancanti (ad esempio, come nel caso analizzato, a seguito di dimissioni) debbano essere necessariamente sostituite; potrebbe avere un significato maggiore, in alcuni casi, la presenza di annunci sul web o tramite agenzie di lavoro (anche head hunter) perché in quel caso, ma solo in quel caso, la mancanza del personale renderebbe già di per sé oggettiva l'obbligo di repechage. In mancanza, invece, si creerebbe una compressione della posizione imprenditoriale.

A questo punto, cosa può fare il datore di lavoro? Nel momento in cui l'imprenditore si appresta a intimare un recesso per giustificato motivo oggettivo, dovrà comunque accertarsi della sussistenza di alcuni requisti e della possibilità concreta di dimostrarli in sede giudiziale, ovvero:
• la effettiva soppressione del posto di lavoro;
• la mancanza di altre posizioni di lavoro equivalenti o inferiori, o l'impossibilità di adibire il lavoratore alle stesse mansioni con un orario ridotto;
l'eventuale rifiuto del lavoratore al ricollocamento interno;
• comunque, la mancata assunzione di nuovo personale nei 6 mesi successivi al recesso v) infine, l'impossibilità, oggettiva, di ricollocare il lavoratore anche in presenza di posizioni poi liberate (scadenze contrattuali, dimissioni, ecc.) per ragioni squisitamente organizzative.

E' una sentenza che complica ulteriormente il lavoro per l'imprenditore che vuole dare un nuovo assetto alla propria azienda, e finisce per essere eccessivamente penetrante e invadente della libera iniziativa economica del medesimo.


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