Penale

La custodia cautelare per associazione dedita allo spaccio non scatta per presunzione

L’adeguatezza della misura di massima limitazione personale può però emergere da altri fattori quali il rischio di mantenimento dei rapporti “illeciti” con i consociati se il soggetto venga ammesso ai domiciliari

di Paola Rossi

In caso di indagato per associazione dedita al traffico di stupefacenti non scatta la presunzione che la custodia cautelare sia la misura personale più adeguata a prevenire la commissione di nuovi reati, in assenza di radicamenti di stampo mafioso. Non si applica cioè la presunzione, recata dal comma 3 dell’articolo 275 del Codice di procedura penale, prevista per il reato dell’articolo 416 bis del Codice penale, che persegue l’associazione di stampo mafioso.

La Cassazione ha però respinto le doglianze contro la misura cautelare carceraria avanzate dal ricorrente, indagato per la partecipazione ad una rete organizzata per lo spaccio di droga. Infatti - come spiega la sentenza n. 7737/2025 - al ricorrente erano stati negati gli arresti domiciliari, ma non per l’errata applicazione della presunzione prevista per le associazioni di stampo mafioso, bensì per l’inadeguatezza della misura domiciliare richiesta e rifiutata. L’indagato aveva interposto appello con esito negativo e quindi ha fatto ricorso per cassazione lamentando un’erronea applicazione della suddetta presunzione e la mancata considerazione dell’ampio lasso di tempo trascorso tra i fatti imputati e l’adozione della misura personale restrittiva.

Per la Cassazione non è rilevabile l’errore dei giudici di appello, in quanto non è in base al comma 3 dell’articolo 275 del Cpp che essi hanno confermato la custodia in carcere, bensì in base alla circostanza che nel domicilio del ricorrente convivessero ancora i figli con i quali era coimputato del reato ascrittogli. Ciò avrebbe determinato la possibilità di proseguire/reiterare il reato associativo attraverso la relazione con i familiari che non erano stati colpiti da misure restrittive.

Infine, la Cassazione esclude l’esistenza di un obbligo per il giudice di dare rilevanza all’ampiezza del tempo trascorso - prima della sottoposizione alla restrizione in carcere - come elemento automaticamente indicativo di una diminuita pericolosità sociale o di ravvedimento del soggetto.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©