Penale

La legalità controllata non differisce all’appalto

La Corte costituzionale amplia la collaborazione tra imprese e sistema giudiziario nei settori dell'antimafia e della lotta alla corruzione

di Filippo di Mauro, Guglielmo Saporito

I lavori eseguiti da imprese sottoposte al regime di legalità controllata, possono essere remunerati e producono utili, che spettano alle imprese stesse.

La Corte costituzionale amplia la “legalità controllata”, la collaborazione tra imprese e sistema giudiziario nei settori dell'antimafia e della lotta alla corruzione.

La sentenza 101 del 23 maggio 2023 prende atto dei problemi delle imprese temporaneamente commissariate per dubbi di infiltrazione mafiosa, riconoscendo loro la retribuzione per i lavori eseguiti per motivi di interesse pubblico, sotto il controllo dell'autorità giudiziaria o della prefettura.

Il caso esaminato riguarda un’impresa di smaltimento rifiuti urbani, destinataria di interdittiva antimafia: per evitare l’interruzione del servizio pubblico, e garantire continuità ai dipendenti, la prefettura aveva insediato dei commissari-controllori e disposto la continuazione del servizio di raccolta rifiuti. Gli utili prodotti dall’impresa commissariata erano rimasti accantonati e, secondo la prefettura, andavano “restituiti” all'amministrazione comunale che a suo tempo aveva assegnato i lavori.

Tale restituzione era ritenuta necessaria quale conseguenza della normativa antimafia, la quale preclude alle imprese contaminate di avere qualsiasi rapporto economico con la pubblica amministrazione.

La Corte costituzionale ha espresso un orientamento diverso, riconoscendo il peso del regime di “legalità controllata”, che riguarda le imprese che risultino essere state contaminate da rischi di infiltrazione mafiosa o da corruzione, ma che tuttavia continuino, sotto il controllo pubblico, a prestare la loro attività.

Gli esempi non mancano, dal Mose di Venezia ai servizi di igiene pubblica e ai mercati ortofrutticoli locali: i lavori ed i servizi possono continuare, sotto il controllo di commissari designati dal magistrato penale o dal prefetto, remunerando dipendenti e fornitori, producendo utili.

Proprio il dubbio sulla destinazione tali utili (se spettanti all’impresa gestita da commissari e poi risanata, o alla Pa danneggiata dall’infiltrazione mafiosa), si è pronunciata la Corte, con una sentenza che aggiorna l’intero sistema.

Il principio espresso dal collegio (presieduto da Silvana Sciarra, relatore Filippo Patroni Griffi) è che, durante gli accertamenti penali, gli utili d’impresa vanno congelati perché probabile frutto di illecito; ma se l’impresa è sottoposta a stringente controllo (Dlgs 231) e gestita da commissari nominati da magistratura o prefettura, gli utili d’impresa non sono più contaminati.

Gli utili stessi, quindi, possono, al termine della procedura, tornare all’impresa quale corrispettivo del servizio prestato.

I lavori svolti in regime di “legalità controllata” non differiscono dai lavori appaltati e, una volta esclusa la loro matrice illecita, possono affluire all’impresa stessa, perché prodotti in un “regime controllato” dalla stessa Pa. Se gli utili prodotti dall’impresa in regime di legalità controllata perdono la loro matrice iniziale di probabile frutto di accordi illeciti (per corruzione o infiltrazione mafiosa), l’amministrazione non può arricchirsi indebitamente, ma deve remunerare la produzione, a favore dell’impresa.

La Corte si allinea quindi al Codice dei contratti pubblici (36/2023, in vigore dal prossimo luglio), agevolando (articolo 94, comma 2) la permanenza sul mercato delle imprese risanate.

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