Lavoro

La parabola delle tutele crescenti: storia del ritorno alla discrezionalità

In assenza di un criterio certo ed oggettivo e vincolante, su cui parametrare il risarcimento, i rischi connessi con un licenziamento ingiustificato tornavano ad essere difficilmente prevedibili

di Alberto De Luca , Valentino Biasi*


Sei anni fa, il 7 marzo 2015, entravano in vigore le tutele crescenti del Jobs Act, innovative tutele in caso di licenziamento illegittimo per i nuovi assunti a tempo indeterminato: un intervento ai tempi considerato rivoluzionario dei principi regolanti le tutele sino ad allora in vigore, che si prefiggeva di disciplinare le conseguenze del licenziamento illegittimo in modo esclusivamente automatico e sulla base di una formula matematica, dando forma all'ambizioso progetto di superare le incertezze di un sistema fino ad allora imperniato sulla discrezionalità del giudicante.

In base alle nuove regole, veniva d'un tratto ridefinito, per le aziende con più di quindici dipendenti, l'ambito di operatività del dibattuto diritto alla reintegrazione che, veniva relegata ad ipotesi residuale applicabile solo ai casi più gravi (insussistenza del fatto contestato al lavoratore, ovvero licenziamento discriminatorio o in altro modo radicalmente nullo) cedendo così il passo ad una tutela risarcitoria, da un minimo di quattro a un massimo di ventiquattro mensilità, per i canoni sino ad allora vigenti piuttosto contenuta soprattutto nei primi anni di servizio.

Almeno nelle intenzioni, la riforma avrebbe dovuto favorire nuova occupazione e ridurre gli ostacoli normativi all'attrazione degli investimenti in Italia.

A distanza di pochi anni, tuttavia, può dirsi con una certa tranquillità che le tutele crescenti originariamente introdotte hanno avuto vita molto breve e altrettanto travagliata.

Da un lato infatti l'economia reale, vero motore di ogni forma di sviluppo e crescita dell'occupazione, non ha avuto il trend auspicato dovendo affrontare da ultimo lo scenario pandemico, inimmaginabile nel 2015, rendendo impossibile riscontrare nel tempo l'incidenza espansiva delle tutele crescenti da un punto di vista occupazionale. D'altra parte, non si sono fatti attendere interventi normativi da parte dei successivi governi e in rapida successione della Corte Costituzionale, che hanno stravolto i connotati della riforma lasciando ben poco di quanto originariamente previsto.

Il primo colpo al sistema delle tutele crescenti veniva inferto dal Decreto Dignità (D.L. n. 87/2018) che, senza modificare la formula per il calcolo dell'indennizzo spettante sulla base di due mensilità per ogni anno di servizio, aumentava l'intervallo dell'indennizzo, che diventava da sei a trentasei mensilità.

Con tempismo sorprendente, di lì a pochi giorni la Corte Costituzionale, n. 194/2018 , dichiarava incostituzionale la normativa nella parte in cui prevedeva un "criterio rigido e automatico, basato sull'anzianità di servizio" per l'individuazione dell'indennità spettante al lavoratore licenziato ingiustamente. Ad avviso della Corte, la tutela risarcitoria necessitava una quantificazione basata su molteplici fattori (come, ad esempio il comportamento e "le condizioni" delle parti) da valutarsi a discrezione del giudice nel commisurare l'adeguato ristoro del pregiudizio subìto dal lavoratore.

E fu così che, nell'arco di poche settimane, il sistema ideato per superare la discrezionalità tornava ad essere incentrato su di essa.

Per giunta, l'effetto combinato del Decreto Dignità e della decisione della Consulta trasformavano in pochi giorni un sistema che tendeva a porre basi di ragionevolezza e prevedibilità delle sanzioni, in un meccanismo di tutele persino più severe della reintegrazione che si era nelle intenzioni originarie voluto superare. Si pensi, infatti, che la tutela della reintegrazione, ove convertita a scelta del lavoratore in una tutela indennitaria, non avrebbe potuto normalmente comportare un ristoro per il lavoratore pari a 36 mensilità, invece accessibili secondo l'impianto delle tutele crescenti riformate dalla legge e ridisegnate dalla Corte Costituzionale.

In tale contesto, data la distanza così ampia tra la misura minima e la misura massima dell'indennità prevista dal Jobs Act ed in assenza di un criterio certo ed oggettivo e vincolante su cui parametrare il risarcimento, i rischi connessi con un licenziamento ingiustificato tornavano ad essere difficilmente prevedibili con un grado di approssimazione certo.

Peraltro può concludersi che l'orientamento da ultimo espresso dalla Corte Costituzionale è chiaramente rivolto a favorire il ritorno della tutela reintegratoria ogni qualvolta gli interventi legislativi abbiano previsto tutele indennitarie.

In questo senso, infatti, la Consulta si è pronunciata il 26 febbraio scorso su una questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Ravenna, disponendo l'illegittimità dell'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, come modificato dalla legge Fornero, nella parte in cui prevedeva la semplice facoltà - e non il dovere - del giudice di reintegrare il lavoratore in caso di accertamento della manifesta insussistenza del giustificato motivo oggettivo, ritenendo la semplice tutela economica in questi casi "ingiustificata ed irragionevole".

È di poche ore fa, poi, la notizia che il Jobs Act sarebbe finito nuovamente sul banco degli imputati. Il Tribunale di Roma ha infatti rimesso al vaglio della Corte Costituzionale l'articolo 9 del D. Lgs. N. 23/2015 , nella parte in cui limita a 6 mensilità il risarcimento massimo spettante ai lavoratori ingiustamente licenziati da datori di lavoro che non superano i 15 dipendenti, ritenendo la tenuità di tale valore in contrasto con i principi di effettività e ragionevolezza della tutela a favore dei lavoratori, oltre inadeguata a dissuadere il datore di lavoro dall'adottare un licenziamento ingiustificato.

Va in ogni caso sottolineato che in difesa delle tutele crescenti del Jobs Act è almeno intervenuta la Corte di Giustizia Europea pronunciatasi (su sollecitazione del Tribunale di Milano), sui dubbi di legittimità circa la possibilità di prevedere tutele diverse per lavoratori nella stessa condizione ma assunti in tempi diversi (ovverosia lavoratori licenziati nel medesimo contesto ma beneficiari di tutele differenti: la reintegra per gli assunti prima del Jobs Act e le tutele crescenti per gli assunti dopo).

La Corte Europea, con sentenza del 17 marzo 2021 (C-652/19) , ha affermato che il Jobs Act non viola il principio di parità di trattamento in caso di licenziamento illegittimo, disponendo un regime risarcitorio rispettoso dei dettami della normativa europea e non dando luogo ad alcuna discriminazione.

In un contesto complesso che vede intrecciarsi orientamenti giurisprudenziali e interventi normativi talvolta inconciliabili, auspicabile sarebbe una profonda e univoca riforma della normativa sulla flessibilità del lavoro che tenga in considerazione le esigenze di giustizia e, al contempo, quelle di certezza e prevedibilità delle conseguenze in caso di licenziamento illegittimo. Queste esigenze, infatti, appaiono oggi molto sentite e prioritarie, anche in vista del lungo periodo di auspicata ripresa da affrontare nel travagliato percorso di uscita dalle conseguenze della economica causata dall'emergenza pandemica in corso.

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*A cura di Alberto De Luca e Valentino Biasi, De Luca & Partners

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