Civile

La presunzione semplice si basa su indizi gravi, precisi e concordanti

Le difficoltà finanziarie del fornitore non provano la mala fede dell’acquirente

di Laura Ambrosi

Nelle operazioni ritenute soggettivamente inesistenti, la contestazione dell’assenza di buona fede da parte dell’acquirente non può basarsi su semplici indizi altrimenti si rischia che gli imprenditori non svolgano i propri affari, per il timore di partecipare ad una possibile frode fiscale con danno per il commercio e l’economia. Le difficoltà finanziarie del fornitore non sono indice sufficiente per recuperare l’Iva su fatture soggettivamente inesistenti: gli imprenditori, infatti, devono svolgere serenamente i propri affari senza temere di trovarsi coinvolti in una possibile frode. A fornire queste considerazioni è la Cassazione con l’ordinanza 27745 depositata ieri.

I fatti. L’agenzia delle Entrate recuperava a una società l’Iva detratta su alcune fatture perché ritenute relative ad operazioni soggettivamente inesistenti. Il provvedimento veniva impugnato dinanzi al giudice tributario che, per entrambi i gradi, confermava l’illegittimità della pretesa perché fondata su indizi scarsamente significativi della consapevolezza della frode da parte della contribuente. In particolare, si trattava di elementi in base ai quali il fornitore viveva un momento di difficoltà economica che avrebbero dovuto indurre la società a non concludere rapporti commerciali. L’Ufficio ricorreva così in Cassazione lamentando, tra gli altri, un’errata ripartizione dell’onere probatorio.

I giudici di legittimità hanno ricordato che in presenza di una contestazione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, l’amministrazione deve provare che il contribuente al momento dell’acquisto sapeva o avrebbe potuto sapere, con l’uso della diligenza media, che l’operazione si inseriva in un’evasione o in una frode. La prova a tal fine può essere anche attraverso presunzioni semplici che, valutate nel complesso, devono essere gravi, precise e concordanti. Secondo la Suprema Corte, infatti, se fossero sufficienti indizi privi di questi requisiti, gli imprenditori sarebbero eccessivamente timorosi e potrebbero essere indotti a non rischiare, decidendo cioè di non concludere i propri affari con grave nocumento al commercio e all’economica. Tanto è che la circolazione dei titoli di credito è strutturata in modo da favorire gli scambi senza che l’acquirente debba approfondire la provenienza di ciò che acquista.

La Cassazione (forse per la prima volta) sembra evidenziare la necessità che simili recuperi non incutano inutili timori agli operatori commerciali, i quali non sono tenuti a controlli dettagliati dei fornitori o della provenienza delle merci acquistate. Sembra quasi che i giudici di legittimità abbiano delineato un confine tra l’imprenditore, che deve liberamente gestire i propri affari, e l’Amministrazione finanziaria, unica incaricata di scoprire le evasioni.

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