Il CommentoPenale

La rinnovata metodologia valutativa dei poteri dell'Organismo di Vigilanza e dei criteri di adeguatezza del Mog

Commento a Corte di Cassazione,VI Sez. Penale, sentenza 15 giugno 2022, n. 23401

di Pierluigi Zarra*

• Il casus decisis

La Sesta Sezione della Corte di Cassazione è intervenuta, con la sentenza 15 giugno 2022, n. 23401 , sul ricorso proposto dal Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Milano, ha escluso la responsabilità della società Impregilo S.p.A. per l'illecito amministrativo previsto ai sensi dell'art. 24-ter, lett. r), del d.lgs. 231 del 2001.

La decisione a cui giunge il Supremo Collegio risulta certamente favorevole alla predetta società, persino in linea con i precedenti gradi di giudizio, specialmente per quanto concerne la sentenza di primo grado del 17 novembre 2009, ove il G.i.p. aveva assolto la società, ai sensi dell'art. 6, d.lgs. n. 231/2001, avendo ritenuto idoneo il MOG predisposto per limitare il rischio di commissione di reati; decisione confermata il 21 marzo 2012 dalla Corte di appello di Milano. Il Procuratore Generale distrettuale provvedeva ad impugnare, in sede di legittimità, tale decisione.

La Corte di Cassazione, con sentenza del 18 dicembre 2013, n. 4677 , accoglieva il ricorso, annullando con rinvio la sentenza, sollecitando la Corte di Appello competente ad un nuovo accertamento di fatto.

Il Supremo Collegio adduceva, infatti, la non idoneità del modello organizzativo della società che prevedeva l'istituzione di un Organismo di Vigilanza sul funzionamento e sull'osservanza delle prescrizioni adottate, in quanto sprovvisto di autonomia e di effettivi poteri di controllo, ma assoggettato, per converso, alle dirette dipendenze del soggetto controllato. Oltre a ciò, sosteneva che l'attività del presidente e dell'amministratore delegato – consistita nel sostituire i dati elaborati dai competenti organi interni e nella relativa diffusione di un comunicato contenente notizie false e idonee a provocare un'alterazione del valore delle azioni della società - non configurava la fattispecie di elusione fraudolenta del modello e non esonerava l'ente dalla responsabilità di cui all'art. 6, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 231/2001.

Il giudice di rinvio era tenuto, quindi, ad accertare, in concreto, i poteri attribuiti all'organismo di vigilanza, in relazione ai comunicati predisposti dagli apicali della società, destinati, di fatto, al mercato.

Più in particolare, si procedeva ad un nuovo giudizio di merito circa l'accertamento della sussistenza del reato presupposto, ovvero l'aggiotaggio.

La Corte di Appello di Milano, con sentenza emessa il 10 dicembre 2014, confermava la decisione assolutoria del primo giudice - seppur mutandone la formula - sostenendo che il modello di organizzazione e di gestione - adottato dalla società - era idoneo, altresì conforme alle indicazioni e alle linee guida della Consob e della Confindustria.
Quanto agli elementi di prova, permaneva l'incertezza sull'effettivo comportamento tenuto dal presidente e dall'amministratore delegato, ovvero sull'accordo collusivo tra questi al fine di veicolare le false informazioni.

Per quel che riguarda l'esito del relativo processo, gli imputati sono stati assolti per l'avvenuta prescrizione del fatto oggetto di contestazione, mentre il procedimento per la responsabilità amministrativa che ha coinvolto l'ente è proseguito.
La sentenza che si commenta costituisce, senza dubbio, un'importante occasione di confronto per i temi di cui si occupa, soprattutto per quel che riguarda i modelli organizzativi, gli organismi di controllo, nonché i criteri di valutazione sull'adeguatezza e sull'effettività del modello, oltre che sul processo di valutazione dell'attività svolta dall'organismo di vigilanza, in rapporto all'attività di accertamento del nesso eziologico intercorrente tra la mancata attivazione delle attività di controllo e la realizzazione di un fatto di reato e, da ultimo, i requisiti che connotano la condotta fraudolenta degli apicali aziendali.

• Il percorso di valutazione sulla congruità del modello organizzativo

Volendo ricostruire il percorso argomentativo su cui si incentra la decisione della Sesta Sezione della Cassazione, occorre evidenziare come quest'ultima abbia constatato l'esistenza del modello organizzativo da parte della società. La vexata quaestio attiene, invero, al giudizio di idoneità del modello di organizzazione, ovverosia alla concreta capacità di quest'ultimo di ridurre il rischio di commissione di reati connessi alle attività informative della società rispetto al mercato e agli enti regolatori dello stesso.

In specie, l'iter argomentativo si stabilizza essenzialmente su due profili.

Il primo si basa sulla disamina del dato normativo dell'art. 6, d.lgs. n. 231/2001 , ovvero si stabilisce che: "l'ente non risponde se prova che…
a) l'organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi".


È ben evidente che l'articolo summenzionato non importi alcuna inversione dell'onus probandi, cioè a dire che l'onere probatorio non grava in capo all'ente, ma spetta all'accusa verificare concretamente eventuali profili legati alla c.d. "colpa d'organizzazione", come stabilito dalla più recente giurisprudenza.

Quanto al secondo profilo, che si pone, difatti, in una fase antecedente all'attività di valutazione dell'idoneità del modello di organizzazione, ci si riferisce essenzialmente all'accertamento della commissione di un reato presupposto che abbia oggettivamente determinato un vantaggio per l'ente.

La realizzazione di un fatto criminoso non determina automaticamente la responsabilità per colpa organizzativa, così come non risulta congrua a dimostrare la non idoneità del modello all'attività di prevenzione di reati, sicché il rischio di reato rileva nell'esclusiva ipotesi in cui il sistema preventivo possa essere aggirato fraudolentemente: ciò costituisce, senza dubbio, l'emblema della politica criminale intrapresa dal legislatore, volendo escludere qualsiasi forma di responsabilità oggettiva nei riguardi dell'ente. In tal modo, secondo quanto riportato dalla Sesta Sezione del Supremo Collegio, l'ente si rende responsabile (per colpa) qualora non si sia dotato di un sistema organizzativo adeguato alla prevenzione di reati; non conformandosi, nella propria attività, alle regole cautelari che, anzi, dovrebbero contraddistinguerla, secondo quanto stabilito dall'art. 6 del d.lgs. n. 231/2001. Oltre a ciò, è indispensabile esaminare, in primo luogo, l'offesa tipica, ossia se e in che modo la commissione di un reato sia effettivamente realizzata nell'interesse o a vantaggio dell'ente e, successivamente, il giudice è tenuto a vagliare la sussistenza di un nesso causale, nel senso di una piena corrispondenza, fra la condotta inosservante una regola cautelare, la conseguente violazione e la verificazione del risultato offensivo, per muovere qualsiasi addebito colposo.

Una tale impostazione determina, sotto alcuni aspetti, un preciso modus operandi, per cui il giudice, dovendo procedere alla complessiva valutazione del fatto illecito attribuito all'ente, dovrà, anche solo idealmente, collocarsi nel momento in cui il reato è stato commesso e verificare, in concreto - secondo il tradizionale sistema empirico - valutativo del giudizio di prognosi postuma - la prevedibilità ed evitabilità dell'illecito, laddove l'azienda avesse oggettivamente previsto un modello di organizzazione congruo alla prevenzione di reati.

In considerazione di quanto sinora osservato, sembrerebbe opportuno soffermarsi, di contro, sulla possibilità di individuare un comportamento alternativo lecito, in modo da poter determinare se, nell'ipotesi in cui l'osservanza della regola cautelare, da sostituirsi mentalmente con il comportamento inosservante, non avrebbe consentito di escludere o, in altro modo, sensibilmente ridurre il pericolo che ne sarebbe derivato da una specifica attività. Significherebbe, invero, analizzare se l'evento determinato dall'omessa conformazione alla regola cautelare risulta, per l'appunto, non evitabile. Da ciò emerge come, nell'eventualità in cui non sia possibile escludere, con certezza, il ruolo causale dei fattori di rischio - su cui si basa la norma cautelare - non sussisterebbero i margini per affermare la responsabilità dell'ente per colpa.

Tanto premesso, la decisione della Corte di Cassazione sembra stabilizzarsi, nel caso in esame, sul valore da attribuirsi alle linee guida della Confindustria , a cui l'ente si è, in verità, conformato.

A tal proposito, approfondendo gli elementi che contraddistinguono l'art. 6, comma 4, del d.lgs. n. 231 del 2001, tale norma dispone che i modelli organizzativi possono essere adottati anche sulla base di codici di comportamento redatti dalle associazioni più rappresentative, previa approvazione del Ministero della Giustizia.

Non v'è chi non veda come questo dato normativo possa sostanzialmente incidere sull'individuazione di specifici parametri su cui si struttura l'intero giudizio di congruità ed efficienza del modello organizzativo. Più in particolare, volendo delineare il reale intendimento normativo - vale a dire la prerogativa di politica legislativa - si potrebbe sostenere che tale norma assolverebbe all'esigenza di costituire un meccanismo unitario, a livello nazionale, volto ad identificare quei criteri orientativi per le imprese nella redazione dei modelli di organizzazione, onde restringere una congenita disomogeneità interpretativa, nonché attuativa, nel percorso di valutazione di detti modelli.

Ad ulteriore riprova di quanto sinora affermato, l'approvazione di specifici codici di comportamento, da parte del Ministro della Giustizia, assolverebbe ad una funzione dirimente, volta ad assicurare una certa omogeneità delle caratteristiche fondamentali per i modelli di organizzazione, da rapportarsi, quindi, in modo differenziale, alle diverse categorie d'impresa. Si tratterebbe, a nostro sommesso parere, di un imprescindibile strumento di riferimento per l'Autorità giudiziaria che - si badi - non detiene, in alcun modo, natura vincolante.

Il Supremo Collegio, sulla scorta di tali osservazioni, sostiene che l'art. 6, comma 4, del d.lgs. n. 231/2001, consta fattivamente in un procedimento funzionale diretto, per un verso, a fissare, proprio mediante le c.d. linee guida, dei criteri atti a indirizzare gli enti ad una corretta composizione del MOG; mentre, per l'altro, appare utile per temprare la discrezionalità riconosciuta al giudice nel procedimento di valutazione circa l'idoneità del modello stesso.

Ciò posto, la sesta sezione rileva, in modo particolarmente accurato, come il modello di organizzazione non può rifarsi elementi che si contraddistinguono per la propria genericità, ma, di contro, necessita di essere individuato in ordine alla specifica struttura e alla realtà imprenditoriale dell'ente, con ciò asserendo che la semplice adesione alle linee guida non determina, per via autonoma ed assoluta, l'appropriatezza del modello stesso.

Quanto al caso di specie, ovvero al MOG della ImpregiloS.p.a., preme osservare come il modello adottato prevedeva la partecipazione di almeno due soggetti per il compimento di attività considerate a rischio, altresì di un apposito regolamento aziendale contenente precipue procedure di autorizzazione per divulgare comunicati stampa e studi aventi ad oggetto strumenti finanziari.

Il predetto regolamento interno affidava, in via esclusiva, ai due organi di vertice, il compito di gestire le comunicazioni riservate, ovvero le price sensitive, le informazioni relative alla società e alle sue controllate, nonché le relazioni afferenti alla gestione degli assets significativi: propagazione che doveva avvenire, come previsto, in modo " completo, tempestivo, adeguato e non selettivo " .

Da ultimo, proprio su questi profili, sia il Tribunale di Milano, sia la Corte di appello di Milano e, infine, la Sesta Sezione della Cassazione, hanno giudicato consona tale procedura, vista la complessità e l'intervento necessario delle diverse articolazioni aziendali, oltre agli organi apicali.

• I requisiti di adeguatezza dei poteri dell'organismo di vigilanza e il procedimento di ricostruzione del rapporto eziologico

La Corte di Cassazione focalizza la propria attenzione su un punto di criticità del modello organizzativo predisposto dall'ente, riferendosi essenzialmente ai poteri che sono stati attributi all'organismo di vigilanza e all'autonomia di quest'organo rispetto ai soggetti apicali della ImpregiloS.p.A.

Sebbene il Supremo Collegio si soffermi su tali elementi, sembra opportuno sottolineare come questa questione sia stata già oggetto di analisi nel il primo giudizio di legittimità, da cui è determinato l'annullamento con rinvio.

Sul punto, si osserva che l'organismo di vigilanza deve detenere "autonomi poteri di iniziativa e di controllo", così come stabilito dall'art. 6, d.lgs. n. 231 del 2001, onde esimere l'ente dalla responsabilità per il delitto commesso dai vertici.

Nel dettaglio, la norma impone che tale organo, pur non dovendo necessariamente risultare quale entità esterna rispetto alla struttura organizzata dell'ente, deve essere munito, in ogni modo, di specifici ed autonomi poteri che si distinguono, dunque, da quegli che contraddistinguo, di contro, le posizioni degli amministratori.

Per quel che riguarda la società Impreglio, tale organismo, denominato "compliance officier", con composizione monocratica, era presieduto dal responsabile dell'internal auditing , un soggetto indipendente dalla Direzione amministrativa, finanziaria e di controllo, sebbene posto alle dirette dipendenze del Presidente del C.d.A.

Proprio per la composizione di tale organismo e, dunque, per l'evidente assoggettamento dello stesso ai "desiderata" degli apicali, la Corte di Cassazione, sia nel primo giudizio di legittimità, sia nella decisione che qui si commenta, sostiene l'inadeguatezza dell'organismo di vigilanza dell'ente, ponendo in risalto talune criticità della struttura sociale.

È proprio su questo aspetto che la Corte di Cassazione prospetta un'accurata disamina, tanto sulle oggettive condizioni di autonomia di tale organismo correlativamente a coloro che rivestono cariche apicali, quanto sui profili di legittimità costituzionale tra l'art. 27, comma 1, Cost. e l'art. 6, d.lgs. n. 231/2001.

Ci si interroga, invero, se anche una difformità formale, riscontrata nel MOG, possa integrare condizione idonea per determinare la responsabilità amministrativa da reato dell'ente.

La Sesta Sezione della Cassazione risolve tale quesito asserendo l'esigenza di predisporre un'appropriata ricostruzione del nesso di causalità fra la discordanza strutturale del modello di organizzazione e l'effettiva commissione del reato presupposto (delitto di aggiotaggio, nell'ipotesi in esame), perpetrato nell'interesse o a vantaggio della società ImpregiloS.p.A.

La soluzione a cui giunge il Supremo Collegio sembra, dunque, conforme, in termini di legittimità, al dettato normativo Costituzionale, ex art. 27, comma 1, Cost.
Questa impostazione è, inoltre, confacente a quanto previsto dall'art. 1, L. 24 novembre 1981, n. 689, recante "Modifiche al sistema penale".

Ebbene, questo espediente appare teleologicamente collegato ad un ulteriore profilo, attinente ai poteri attribuiti all'organismo di vigilanza sugli atti posti dall'organo rappresentativo e degli amministratori della società, preposto, ex lege, esternare la volontà dell'ente al di fuori dei rapporti interni del medesimo.

Ciò posto, è necessario delineare correttamente quale sia il punto "chiave" dell'intera vicenda, ovvero se sia legittimo imporre che anche gli atti dei massimi organi rappresentativi di una società siano assoggettati ad un'attività di controllo, di natura prevalentemente preventiva, da parte dell'Organismo di Vigilanza.

Sotto quest'ultimo aspetto, la Cassazione effettua un'ulteriore digressione sulla legge delega, segnatamente sulla relazione illustrativa, ove si evince che, dato l'elevato livello di poteri e di responsabilità dell'autore del reato - per il ruolo stesso ricoperto dal dirigente, rispetto al nucleo dell'organizzazione dell'ente - ciò consente di identificare nella sua colpa il requisito della colpevolezza della stessa organizzazione aziendale; trattandosi di una immedesimazione organica dell'ente che troverebbe applicazione, secondo la generale, nonché tradizionale teoria, nel diritto civile, ai sensi degli artt. 2266 e 2384 del codice civile.

Visto e considerata la proteiforme natura della disciplina che, come è noto, si pone a cavaliere fra il diritto penale e il diritto amministrativo delle molteplici modalità di responsabilità da reato dell'ente, si è ritenuto opportuno provvedere alla determinazione di un criterio concorde ai dettami costituzionali, specialmente al generale divieto di responsabilità oggettiva e alla condizione di esigibilità di una condotta alternativa lecita.

In verità, il legislatore delegato, temendo delle collisioni irrimediabili con i principi costituzionali, ha optato – in modo condivisibile, a nostro avviso – al riconoscimento del principio della colpevolezza, ritenuto pienamente applicabile in tale materia, in ordine all'evidente natura "sostanzialmente penale" della responsabilità dell'ente, a discapito dell'opposto principio dell'immedesimazione organica riconosciuta tanto nel diritto civile, quanto in quello societario. Si è avvertita la necessità, in questo modo, di riacquisire quel coefficiente di riferibilità soggettiva del fatto alla società, identificato, dunque, nella c.d. colpa di organizzazione .

Questa soluzione troverebbe legittimazione se si considera la pretesa di scongiurare ipotesi di responsabilità - in via automatica, ovvero oggettiva - dell'ente, nei casi di amministratori infedeli, ossia di quei soggetti con posizione di prestigio che, nel compiere il reato, seppur operando nell'interesse od a vantaggio della società, contravvengono, nella propria attività, alle prerogative di politica aziendale stabilite dal C.d.A. o dall'assemblea dei soci.

La Sesta Sezione della Cassazione, nel confermare la necessità di scindere la responsabilità dell'ente da quella degli apicali, riconduce, alla prima, le sole condotte che possono essere ricollegate, secondo il nesso eziologico, ad una colpa di organizzazione. Devesi considerare - oltre a quanto sinora osservato - che l'attività di accertamento del rapporto di causalità deve relazionarsi, inoltre, al grado di ingerenza consentita dall'organismo di vigilanza sugli atti compiuti dai vertici, in quanto ciò incide, quindi, anche sul contenuto del modello di organizzazione, in modo da poter valutare - in via conclusiva e in base a tutti questi presupposti – la sua idoneità e adeguatezza.

Si può, dunque, conclusivamente asserire che non è possibile ammettere controlli di natura preventiva, da parte dell'O.d.V., su qualsiasi atto predisposto dai vertici societari, giacché l'art. 6, comma 1, lett. b) del d.lgs. n. 231/2001 dispone che i compiti dello stesso sono circoscritti al riconoscimento e alla relativa segnalazione delle problematicità del modello, derivanti anche dalla sua stessa applicazione.

Non possono essere pretese, ex adverso, attività di controllo più invasive, specie per quel che riguarda reati di tipo comunicativo e di informazione, anche perché si correrebbe il rischio di determinare forme di controllo gestorio che esulano, di fatto, i compiti, stabiliti dalla legge, per l'Organismo di Vigilanza.

Da ultimo, il Collegio ha sostenuto la piena conformità e idoneità del modello organizzativo della società Impregilo S.p.A., per quanto ometta la previsione di una specifica attività di controllo preventivo sui comunicati e notizie del presidente e dell'amministratore delegato.
In definitiva, si accerta che i confini di autonomia, riconosciuti ai soggetti apicali, costituisce una componente ineludibile, in quanto rappresenta elemento " coessenziale al fascio di poteri e responsabilità loro attribuite dalla legge civile " .

• L'attività elusiva del modello di organizzazione ad opera dei vertici aziendali

Il Collegio, prima di pervenire alla decisione che qui si commenta, si sofferma su un ulteriore aspetto, cioè a dire l'accertamento dell'elusione del modello organizzativo ad opera del presidente e dell'amministratore delegato della società suspecificata, onde escludere possibili ipotesi di responsabilità da reato dell'ente - come disciplinato dall'articolo 6, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 231/2001 - per cui si richiede che gli apicali abbiano commesso il reato (nel caso in esame, il delitto di aggiotaggio), previa elusione fraudolenta dei MOG.

Più in particolare, preme evidenziare come la nozione giuridica di elusione implica necessariamente la sussistenza di una condotta avente una connotazione decettiva, che consta nel precipuo intendimento di sottrarsi, con malizia, ad un obbligo previsto dalla legge, altresì di un aggiramento di un vincolo che, come nelle circostanze qui evidenziate, corrispondere, in concreto, al contenuto prescrittivo del modello di organizzazione dell'ente. Al concetto di elusione si accompagna, inoltre, un ulteriore predicato, ovvero la fraudolenza; elemento che è contenuto nella norma stessa, che non assolve ad una funzione meramente sintattica, ma, di contro, pone in risalto aspetti tipici della condotta che devono distinguersi dalla semplice violazione delle regole del modello; prevedendo, in tali ipotesi, una condotta ingannatoria.

Ciò posto, la Corte di Cassazione evidenzia come la condotta elusiva debba possedere determinati requisiti, di seguito indicati: devesi trattare di una attività ingannevole, falsificatrice, obliqua e subdola, al punto da mostrare – al fine di esonerare l'ente dalla responsabilità da reato – una dissociazione da parte degli apicali rispetto alle prerogative e alle finalità di politica aziendale che sono imposte con il modello di organizzazione. Il reato presupposto rappresenta di fatto, in questo modo, la conseguenza di una scelta individuale e autonoma attribuibile alla persona fisica, realizzata non già per effetto di un'inefficienza organizzativa, bensì, di una condotta, come s'è detto, ingannevole, nonostante venga accertata l'esistenza di un sistema organizzativo adeguato.

Quanto al caso di specie, il modello di organizzazione della società Impregilo S.p.A. contemplava una procedura che si costituiva, per quanto concerne la predisposizione delle comunicazioni price sensitive ai mercati, di una serie di fasi successive che coinvolgevano la partecipazione di diversi soggetti e di distinte strutture organizzative societarie, in base alle relative e distinte competenze delle parti in causa.

Da ciò emerge come l'iniziativa - seppur conseguenza di un accordo estemporaneo ed occulto - presa dai soggetti con posizione di vertice può ritenersi fraudolentemente elusiva e, quindi, decettiva di tutte quelle prescrizioni del modello organizzativo adottato dal soggetto, tra cui l'aver reso inattuabile qualsiasi interlocuzione fra i vari organi sociali, in quanto compiuta approfittando di un margine discrezionale e di autonomia che veniva loro concesso. In considerazione dei motivi sin qui enucleati, il Supremo Collegio ha ritenuto tale condotta ingannevole, subdola, occulta e falsificatrice, altresì obliqua, determinando, di conseguenza, l'esonero dell'ente da responsabilità.

• Valutazioni conclusive e spunti di riflessione

Siano consentite alcune brevi riflessioni in merito alla vicenda in commento.
La Corte stabilisce che il requisito di idoneità del MOG deve seguire un percorso di valutazione che trae origine dalla corretta impostazione e stesura delle varie procedure che lo compongono, anche in osservanza delle analisi sui fattori di rischio per i singoli reati presupposto che possono, dunque, coinvolgere l'ente.

Altro parametro è costituito, secondo la Cassazione, dall'effettività del modello organizzativo, giacché le procedure previste dal MOG devono essere eseguite, in modo concreto e preciso, nelle ipotesi per cui le stesse sono a ciò previste. Orbene, è proprio l'organismo di vigilanza l'organo deputato a controllare la corretta ed adeguata esecuzione delle procedure e la congruità delle stesse a prevenire o, nel caso, attenuare i rischi. Tale organismo deve, in tal guisa, detenere precipui e concreti poteri; svincolati, di fatto, dalla dirigenza societaria, pur non essendo dotato - in alcun modo - di specifiche prerogative gestionali.

Presumendo che il modello organizzativo sia diretto a prevenire rischi da reato compiuti nell'interesse a vantaggio dell'ente da parte dell'alta direzione, si deve affermare che la valutazione sull'idoneità di tale documento andrà rapportata al grado di necessaria autonomia di cui i soggetti con posizione apicale godano necessariamente e, inoltre, alla decettività della loro condotta, diretta, invero, a eludere il MOG.

In merito ai presupposti stabiliti dall'art. 6 del d.lgs. n. 231 del 2001, questi saranno rispettati solo nell'ipotesi in cui il modello, sebbene idoneo e fornito di un organismo di vigilanza che opera, in modo effettivo, in tale contesto, non poteva, in concreto - in base alla natura stessa dell'operazioni poste in essere dalla dirigenza - prevenire il rischio di realizzazione del reato presupposto.

In relazione a quanto stabilito nella sentenza in oggetto, emerge come si debba rinunciare alla disposizione di specifiche procedure di prevenzione, favorendo, ex adverso, valutazioni sull'esigibilità di una previsione più cogente, ma irrealizzabile in concreto, vista la natura stessa delle operazioni che queste disciplinano.

Nell'eventualità in cui il modello venga ritenuto idoneo dal giudice, come si verifica nell'ipotesi della sentenza in oggetto, ma l'Organismo di Vigilanza non detenga appropriati e validi poteri di controllo, l'Autorità giudiziaria è tenuta a verificare se una previsione maggiormente invasiva avrebbe potuto, effettivamente, evitare la realizzazione dell'evento dannoso o pericoloso. Nell'ipotesi di una risposta negativa a riguardo, come si verifica nella decisione Impregilo, non sussisterebbe alcun nesso eziologico fra l'inidoneità del modello e il fatto di reato, per uno "status di debolezza" congenito dell'O.d.V.
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*A cura di Pierluigi Zarra, Abilitato all'esercizio della professione forense presso la Corte di Appello di Roma; dottorando in Scienze Giuridiche presso l'Università di Foggia e specialista in professioni legali presso l'Università di Roma "Sapienza"