Penale

La tutela penale dell'abbigliamento Made in Italy

Commento a sentenza n. 10912/2020, Corte di Cassazione - Sezione 3 Penale

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di Alberta Antonucci , Mattia Miglio


La sentenza che qui si commenta offre l'occasione per qualche spunto di riflessione sull'attuale normativa penale a tutela del c.d. "Made in Italy".

In estrema sintesi, all'attuale imputata - in qualità di Legale rappresentante di una società a responsabilità limitata operante nel settore dell'abbigliamento - veniva contestato di aver fatto uso di etichette su alcuni capi di abbigliamento, idonee ad ingenerare nel consumatore la convinzione che il prodotto fosse stato interamente realizzato in Italia, quando invece il confezionamento degli stessi era avvenuto in uno stato dell'est Europa.

Avverso la pronuncia di condanna emessa dalla Corte d'Appello, la difesa deduceva con un primo motivo la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, sull'assunto per cui la qualificazione giuridica dei fatti contestati aveva subito diverse variazioni nel corso del procedimento penale.

Nello specifico, si legge nelle motivazioni, dopo una prima contestazione ex art. 16, comma 4 l. 20 novembre 2009, n. 166, la sentenza di primo grado aveva condannato l'odierna imputata in ordine al reato di cui all'art. 517 c.p., mentre la Corte d'Appello aveva invece pronunciato condanna in ordine all'ipotesi di cui all'art. 16, comma 4, nonostante "nelle motivazioni si fosse disquisito dell'art. 4, comma 49 l. n. 350/2003" (p. 2).

Ciò posto, la Suprema Corte esclude la necessità di procedere a una nuova formulazione del capo di imputazione sull'assunto per cui "il fatto è stato adeguatamente rappresentato nel capo d'imputazione" (p. 3), focalizzando così l'attenzione "solo della qualificazione giuridica del fatto" (p. 3).

Sennonché, anche a voler prescindere dalla censura mossa dalla difesa, è sicuramente opportuno - anche in vista di quanto si dirà nel par. 2 (cfr. infra) - effettuare una breve ricognizione della struttura delle tre fattispecie appena richiamate.

Senza voler esaminare nel dettaglio i requisiti e i presupposti delle tre norme (per approfondimenti, si rinvia a VALENTINI, Versatilità del diritto penale e certezza della punizione: l'implacabile arsenale "made in Italy" in una recente sentenza della Cassazione, in Archivio penale, 2020, f. 2, pp. 1 ss.), è comunque da ricordare che l'art. 517 c.p. punisce "chiunque pone in vendita o mette altrimenti in circolazione opere dell'ingegno o prodotti industriali, con nomi, marchi o segni distintivi nazionali o esteri", in quanto "atti a indurre in inganno il compratore sull'origine, provenienza o qualità dell'opera o del prodotto".

Accanto a tale fattispecie, è doveroso ricordare come la legge Finanziaria 2004 abbia introdotto una prima fattispecie speciale dedicata al c.d. "Made in Italy": si tratta, come accennato, dell'art. 4, comma 49 l. 350/2003, il quale - dopo aver previsto che "l'importazione e l'esportazione a fini di commercializzazione ovvero la commercializzazione o la commissione di atti diretti in modo non equivoco alla commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza o di origine costituisce reato ed è punita ai sensi dell'articolo 517 del codice penale" - dispone che "costituisce falsa indicazione la stampigliatura "made in Italy" su prodotti e merci non originari dall'Italia ai sensi della normativa europea sull'origine; costituisce fallace indicazione, anche qualora sia indicata l'origine e la provenienza estera dei prodotti o delle merci, l'uso di segni, figure, o quant'altro possa indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana incluso l'uso fallace o fuorviante di marchi aziendali ai sensi della disciplina sulle pratiche commerciali ingannevoli, fatto salvo quanto previsto dal comma 49-bis" (per approfondimenti, si rinvia a VALENTINI, 231 e moda, 2020; ID., Il diritto penale dei segni distintivi, 2018).

Il testo della norma, si è visto, si impernia sul requisito di origine "ai sensi della normativa europea", ossia - anche qui, senza pretese di esaustività - accogliendo una nozione fondata sulla circostanza per cui almeno l'ultima trasformazione sostanziale deve essere avvenuta in territorio italiano.

Ne consegue così che l'art. 4, comma 49 trova applicazione solamente in caso di prodotti - recanti la stampigliatura "Made in Italy" - integralmente concepiti, fabbricati e confezionati in territorio estero, mentre tale norma non può essere oggetto di contestazione nell'ipotesi in cui una fase della produzione - almeno l'ultima trasformazione sostanziale - sia avvenuta in territorio italiano (ancora, VALENTINI, Versatilità del diritto penale, cit., pp. 3 ss.).

Accanto all'art. 4, comma 49, infine, nel 2009 il Legislatore ha introdotto un'ulteriore disposizione (più restrittiva) - l'art. 16 d.l. 135/2009 (poi convertito nella l. 166/2009) - la quale - dopo aver puntualizzato che "si intende realizzato interamente in Italia il prodotto o la merce, classificabile come made in Italy ai sensi della normativa vigente, e per il quale il disegno, la progettazione, la lavorazione ed il confezionamento sono compiuti esclusivamente sul territorio italiano" - punisce al comma 4 "chiunque fa uso di un'indicazione di vendita che presenti il prodotto come interamente realizzato in Italia, quale "100% made in Italy", "100% Italia", "tutto italiano", in qualunque lingua espressa, o altra che sia analogamente idonea ad ingenerare nel consumatore la convinzione della realizzazione interamente in Italia del prodotto, ovvero segni o figure che inducano la medesima fallace convinzione".

Detto altrimenti, l'art. 16, comma 4 - finalizzata anche a scoraggiare fenomeni di delocalizzazione della produzione - punisce l'abuso di alcune diciture - quali ad esempio "100% Made in Italy" - nelle ipotesi in cui il prodotto - pur avendo origine italiana - sia stato anche in parte realizzato al di fuori del territorio nazionale.

Quindi, riassumendo, per quanto concerne la tutela del "Made in Italy":

a) l'art. 517 c.p. riveste il carattere di norma generale - la fattispecie contiene l'apposita clausola di riserva "se il fatto non è preveduto come reato da altra disposizione di legge" - mentre con particolare riguardo alla tutela penale della fallace indicazione del c.d. Made in Italy operano le seguenti norme:

a1) l'art. 4, comma 49 l. 350/2003 che, come detto, trova applicazione solamente quando il prodotto recante tale dicitura sia stato integralmente realizzato in tutte le fasi al di fuori del territorio nazionale, in ossequio al principio di origine territoriale sancito dalla CE;

a2) l'art. 16, comma 4 l. 166/2009, la quale opera nei confronti di prodotti recanti dicitura "100% Made in Italy" o simili, pur essendo parzialmente realizzati altrove (per approfondimenti, si rinvia a VALENTINI, Versatilità del diritto penale, cit., pp. 3 ss.; ID., 231 e moda, cit.; ID., Il diritto penale dei segni distintivi, cit.).

Delineato tale quadro generale, prima di esaminare le ragioni che hanno indotto la Suprema Corte a confermare le conclusioni della sentenza d'Appello, pare opportuno riportare brevemente il contenuto del secondo motivo dedotto dalla ricorrente.

Nel censurare il ragionamento della Corte d'Appello, la difesa aveva ritenuto di ricondurre i fatti oggetto di contestazione nell'ambito dell'art. 4, comma 49 anziché sotto la sfera applicativa di cui all'art. 16, comma 4.

In questo senso, il ragionamento difensivo prendeva le mosse dalla circostanza che i capi di abbigliamento "pacificamente confezionati da una società bulgara, erano così caratterizzati: n. 148 cappotti da uomo recavano sulla manica l'etichetta "Fabric Made in Italy by Ing. omissis" ed all'interno presentavano un'etichetta dello stesso tipo ed un'ulteriore etichetta con la dicitura "distribuito da omissis - Made in UE"; n. 173 giacche da uomo a marchio omissis nelle cui tasche interne vi era l'etichetta "Distribuito da omissis Made in U.E.", oltre ad una spilla, raffigurante i colori della bandiera italiana, fissata ad un cartoncino, e sulle grucce la scritta "omissis"; n. 113 giacche da uomo con marchio (omissis), nelle cui tasche interne vi era l'etichetta "Distribuito da (omissis) - Made in U.E.", e sulla manica all'esterno l'etichetta "omissis 100% Made in Biella", mentre sulle grucce l'indicazione (omissis); n. 643 giacche da uomo con marchio (omissis) nelle cui tasche interne vi era l'etichetta "Distribuito da omissis - Made in UE", oltre a due etichette, di cui una sulla manica apposta all'esterno e ben visibile e l'altra all'interno del capo con la dicitura "omissis - Made in Italy", nonché le grucce recanti l'indicazione "omissis". (pp. 2-3).

In buona sostanza, volendo esemplificare, i capi - confezionati in Bulgaria - presentavano sulla manica - all'esterno e quindi percepibili dal potenziale acquirente - etichette relative all'origine del tessuto, mentre all'interno dei vestiti c'erano invece etichette relative alla distribuzione italiana dei capi con - in alcuni casi - indicazione di produzione UE; infine sulle grucce erano apposte alcune diciture/etichette evocative dell'origine italiana dei prodotti.
Alla luce di tali elementi, la difesa evidenziava così che i fatti oggetto di contestazioni non integrassero tanto la fattispecie di cui all'art. 16, comma 4 l. 166/2009 - non vi era del resto alcun riferimento alla dicitura "100% Made in Italy", se non nell'etichetta relativa a una tipologia di capo - quanto rientrassero piuttosto nell'ambito dell'art. 4, comma 49 l. 350/2003.

Sennonché, quest'ultima norma non avrebbe potuto trovare applicazione nella vicenda che ci occupa, dal momento che la realizzazione all'estero della sola fase di confezionamento dei capi non avrebbe mai potuto radicare l'origine territoriale in Bulgaria ai sensi dell'art. 38 Reg. CE, facendo venir meno l'origine italiana - le restanti fasi produzione erano avvenute in Italia - del prodotto.

Ciò posto, come accennato, la Suprema Corte confermava la correttezza del ragionamento adottato della Corte d'Appello.

Da un lato, si legge nelle motivazioni, la Corte d'Appello aveva ritenuto rilevanti le fatture "delle aziende italiane di tessuti alla (omissis)" dalle quali "poteva inferirsi che questa avesse comprato la materia prima in Italia, ma, mancando le ulteriori fatture o documenti di consegna della merce dalla (omissis) alla (omissis), cioè la società bulgare che si era occupata del confezionamento, non poteva ritenersi che fossero stati trasferiti i tessuti e non solo le etichette" (p. 4), mentre, sotto altro versante, si era rilevato che "le diciture usate nelle etichette non facevano sempre ed univocamente riferimento al "Made in Italy", ed infatti, per "omissis 100% Made in Biella" la relazione con il tessuto era inesistente, per "omissis - Made in Italy" non era di facile intuizione, per "Fabric Made in Italy by ing. omissis" era difficile pensare al termine "fabric" nella sua accezione di "tessuto", piuttosto che di "fabbricazione" (p. 4).

Tale ragionamento - prosegue la Suprema Corte di Cassazione - trova fondamento giuridico sulla scorta del dato letterale della norma di cui all'art. 16, comma 4: "la disposizione del comma 4 del dell'art. 16 cit." la quale, si legge, "si riferisce esclusivamente a quelle indicazioni di vendita che presentino il prodotto come interamente realizzato in Italia, ossia esplicitamente alle indicazioni del tipo "100% Made in Italy", "100% Italia", "tutto italiano" o altre analoghe indicazioni idonee ad ingenerare nel consumatore la convinzione della realizzazione interamente in Italia del prodotto, ovvero anche alla apposizione di segni o figure che inducano la medesima fallace convinzione di un prodotto realizzato interamente in Italia" (pp. 4-5).

Proseguendo, la Corte conclude poi puntualizzando che la norma in questione era stata integrata nella vicenda in esame, dal momento che "oltre all'indicazione del tessuto, anche le ulteriori etichette riconducibili a ditte italiane, i colori della bandiera italiana e le grucce contribuiscono ad ingenerare la convinzione nel consumatore che il prodotto sia interamente italiano" (p. 5).

In questo senso, nessuna rilevanza viene attribuita - neanche ai fini di esclusione dell'elemento soggettivo - alla circostanza che la pluralità di etichette apposte - alcune delle quali (peraltro) indicavano che la produzione era avvenuta nell'Unione Europea - fossero veritiere in quanto riportanti dati relativi alle varie fasi della produzione del tessuto (es.: la fabbricazione e la distribuzione).

Tali etichette - lungi dal configurare un dettagliato report dell'origine delle singole fasi della produzione, idoneo ad escludere quanto meno la sussistenza dell'elemento doloso - "contribuiscono" (p. 5) - insieme ai colori della bandiera italiana e alle grucce riportanti diciture richiamanti l'Italia - "ad ingenerare la convinzione nel consumatore che il prodotto sia interamente italiano" (p. 5) e la loro sovrabbondanza viene considerata come "artatamente" apposta "per fornire una fallace convinzione nel consumatore". (p. 5).

Orbene, le conclusioni appena descritte impongono necessariamente alcune considerazioni.

In prima battuta, non può certo trascurarsi che il fondamento giuridico su cui poggia l'intero ragionamento della Suprema Corte trova fondamento non tanto sulla dicitura "100% Made in Italy" (o diciture simili) - non era presente se non su una categoria di capi - quanto sulla clausola di chiusura "altra" indicazione di vendita "che sia analogamente idonea ad ingenerare nel consumatore la convinzione della realizzazione interamente in Italia del prodotto, ovvero segni o figure che inducano la medesima fallace convinzione" (sul punto, per ulteriori approfondimenti, si rinvia a VALENTINI, Versatilità del diritto penale, cit., pp. 11-12).

Sennonché, è evidente, un'interpretazione troppo estensiva di tale inciso - dai contorni già di per sé poco determinati - finirebbe per attrarre nella struttura dell'art. 16, comma 4 condotte aventi origine italiana ai sensi della normativa comunitaria e, come tali, penalmente irrilevanti ai sensi dell'art. 4, comma 49 l. 350/2003; con ciò determinando inevitabilmente possibili interferenze interpretative tra le due norme.

Al contempo poi, l'attuale impianto normativo - abbinato alla complessità della filiera produttiva nel settore c.d. fashion - impone importanti riflessioni anche nell'ottica del sistema 231.

Come accennato nel par. 1 (cfr. supra), i fatti oggetto di contestazione sono stati anche qualificati - seppur in parte del procedimento qui in esame, prima della definitiva qualificazione giuridica nel corpo dell'art. 16, comma 4 - nell'ambito di operatività dell'art. 517 c.p., norma che - come noto - rientra tra i reati presupposto idonei a fondare la responsabilità amministrativa dell'ente ai sensi dell'art. 25 bis1 D.Lgs. 231/2001 (sul punto, si rinvia, per ulteriori approfondimenti, a C.PADOVANI, Il settore del fashion, in (a cura di LUPARIA DONATI-VACIAGO, Compliance 231. Modelli organizzativi e OdV tra prassi applicative ed esperienze di settore, 2020, pp. 239 ss.).

Orbene, stante le caratteristiche del settore moda, l'art. 517 c.p. - al pari degli altri reati presupposto ex art. 25 bis1 (si pensi, ad esempio, all'art. 515 c.p.) - rientra tra le aree a maggior rischio di sanzione per le imprese operanti nel fashion.

Ne consegue così che - onde scongiurare la commissione di tali illeciti e, in particolare, dell'art. 517 c.p. - tali imprese dovranno dotarsi - nell'ambito dei modelli di gestione ed organizzazione ex D.Lgs. 231/2001 - anche di apposite misure procedurali volte a verificare e garantire la qualità dei prodotti, l'adeguatezza dell'attività dei fornitori, la verifica sulle etichette e sui loro contenuti, il controllo sull'adeguatezza delle comunicazioni pubblicitarie al pubblico etc (si rinvia ancora a C.PADOVANI, Il settore del fashion, cit., pp. 246-248 e pp. 251-252).

In questo senso, alcuni passaggi della presente pronuncia offrono interessanti indicazioni sul contenuto che dovranno avere le misure appena menzionate.

Infatti - alla luce delle indicazioni della presente pronuncia (che, ad es., fa cenno "sovrabbondanza di etichette e segni", cfr. p. 5) - i protocolli destinati a prevenire la commissione dell'art. 517 c.p. - reato presupposto della responsabilità dell'ente - dovranno analiticamente prevedere un'implementazione delle procedure di formazione dell'organico aziendale, il controllo sul linguaggio e sui contenuti/strategie delle comunicazioni pubblicitarie, oltre a un puntuale controllo sui contenuti (e sul numero) delle etichette e delle diciture prima del loro invio in stampa e, successivamente, all'atto dell'apposizione sui capi (per ulteriori approfondimenti, si rinvia a C.PADOVANI, Il settore del fashion, cit., pp. 251-252).

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