Civile

La vexata questio dei diritti da riconoscersi ai coniugi sui beni ricompresi nella comunione de residuo

La materia è regolata dall'articolo 178 del Cc e solleva due interessanti questioni: il riconoscimento dei requisiti richiesti per estromettere l'immobile aziendale dalla comunione immediata e dalla contitolarità dei coniugi e la precisazione della natura del diritto che il coniuge non imprenditore acquista sui beni aziendali dell'altro, cessato il regime della comunione.

di Valeria Cianciolo

Sulla natura, reale ovvero obbligatoria, dei diritti da riconoscersi in capo ai coniugi sui beni ricompresi nella cosiddetta comunione de residuo la seconda sezione della Cassazione con l'ordinanza interlocutoria 19 ottobre 2021 n. 28872 ha trasmesso gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.

La questione - Il regime patrimoniale della comunione legale instaurato da un imprenditore col proprio coniuge può condizionare l'integrità dell'azienda, nel momento in cui, cessato il rapporto di coniugio con la separazione e di conseguenza, cessata la comunione legale, si debba riconoscere al coniuge non imprenditore un diritto alla metà dell'azienda medesima. La materia è regolata dall'articolo 178 del Cc e solleva due interessanti questioni: il riconoscimento dei requisiti richiesti per estromettere l'immobile aziendale dalla comunione immediata e dalla contitolarità dei coniugi e la precisazione della natura del diritto che il coniuge non imprenditore acquista sui beni aziendali dell'altro, cessato il regime della comunione.
Dal tipo di soluzione adottata dipende la disciplina dei successivi atti di disposizione dell'azienda. È questo il quesito al quale sono chiamate a rispondere le Sezioni Unite con l'ordinanza interlocutoria 28872/2021.

Il caso - Tizia e Caio avevano costituito una Srl della quale erano co-amministratori in parti uguali. Successivamente i due coniugi acquistavano un'area fabbricabile sulla quale costruire una sede destinata a un'impresa individuale che Caio aveva avviato in proprio.Con successivi atti i coniugi acquistavano diversi fondi. Solo in uno di questi atti dichiaravano che l'immobile era stato acquistato in regime di comunione legale, mentre negli altri risultava essere unico acquirente e intestatario il marito, mentre l'attrice pur intervenuta nella stipula aveva dichiarato che gli immobili acquistati, non rientravano nella comunione dei beni in conformità all'articolo 179 lett. d) del Cc.
Intervenuta la separazione giudiziale, la moglie conveniva il marito reclamando il suo diritto di comproprietà sui predetti mobili. La donna sosteneva, facendo sempre riferimento all'articolo 178 del Cc, di essere comproprietaria dei beni mobili dell'impresa, compresi gli utili, gli incrementi, le attrezzature e le quote della società ancora intestata al coniuge poiché lei aveva sottoscritto tutte le quote di nuova emissione per effetto di un'operazione di abbattimento del capitale sociale e di contestuale ricostituzione.
Il tribunale nell'accogliere la domanda di parte attrice, dichiarava che la stessa era proprietaria del 50% dei beni immobili, in conformità dell'articolo 178 del Cc. La Corte d'appello, in parziale riforma della sentenza di primo grado, affermava invece, che la donna era titolare di un diritto di credito corrispondente al 50% del valore dei beni costituenti l'impresa esercitata a titolo personale dal marito durante il matrimonio, e disponeva la prosecuzione del giudizio di appello ai fini dell'accertamento in concreto dell'esistenza dell'entità del credito.
Avverso la sentenza non definitiva pronunciata dalla corte d'appello, la moglie proponeva ricorso per cassazione, denunciando, innanzitutto, la violazione e falsa applicazione degli articoli 177, 178 e 179 del Cc.
A suo dire, la Corte territoriale avrebbe dovuto considerare il diritto reale sugli stessi beni, senza necessità di trasformare il diritto del coniuge in un diritto di credito. Argomentando in senso contrario, infatti, secondo la ricorrente, l'interpretazione dell'articolo 178 del Cc porterebbe a una situazione pregiudizievole per il coniuge non imprenditore che è il soggetto debole che la legge intende tutelare con la comunione legale anche a seguito dello scioglimento del vincolo. Inoltre, afferma sempre la ricorrente, sostenendosi come ha fatto la corte d'appello che il diritto del coniuge del non imprenditore è un diritto di credito, si sarebbe dovuto ritenere che il coniuge avrebbe avuto diritto di prelevare beni ricadenti nella comunione sino a concorrenza del proprio diritto di credito.
La Suprema Corte con riferimento al primo motivo, ha ritenuto opportuno rimettere la decisione alle Sezioni Unite trattandosi di una questione di particolare importanza poiché la questione investe la natura giuridica della comunione de residuo su cui si confrontano due differenti tesi.

La comunione de residuo - La comunione legale si scioglie nei casi indicati dall'articolo 191 del Cc. A seguito dello scioglimento della comunione legale, si apre un procedimento liquidatorio che termina con la divisione del patrimonio comune. In detta fase, ciascuno dei coniugi deve rimborsare alla comunione le somme prelevate dal patrimonio comune per fini diversi delle obbligazioni previste dall'articolo 186 del Cc. Ancorché la norma parli di "scioglimento della comunione", in verità al verificarsi di una delle predette cause, non si determina l'attribuzione ai coniugi della proprietà esclusiva sui beni comuni, bensì la mera cessazione del regime di comunione legale, nel senso che gli acquisti successivamente compiuti da uno dei coniugi non andranno a costituire un patrimonio comune.
In altri termini, se è vero che il verificarsi di una delle ipotesi di cui all'articolo 191 del Cc comporta la cessazione del regime legale, l'effetto proprio dello scioglimento della comunione non è "meramente estintivo" di tale regime, perché si assiste alla nascita o meglio, alla trasformazione della comunione legale in una nuova situazioni giuridica attraverso l'espansione oggettiva della contitolarità riguardo ai beni rientranti nella comunione de residuo.
Conseguentemente, il momento cui far riferimento per la liquidazione del debito è quello dello scioglimento, in quanto da tale momento soltanto diviene esigibile l'obbligo del rimborso, a meno che non sia stato richiesto anteriormente. È proprio al momento dello scioglimento che deve essere definito il contenuto della"comunione de residuo", la cui disciplina è in particolare contenuta negli articoli 177, lett. b) e c), e 178 del Cc,: e precisamente, il primo articolo stabilisce che costituiscono oggetto della comunione legale: "b) i frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi, percepiti e non consumati allo scioglimento della comunione; c) i proventi dell'attività separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento della comunione, non siano stati consumati"; mentre l'articolo 178 del Cc prevede che "I beni destinati all'esercizio dell'impresa di uno dei coniugi costituita dopo il matrimonio e gli incrementi dell'impresa costituita anche precedentemente si considerano oggetto della comunione solo se sussistono al momento dello scioglimento di questa".

Cadono pertanto in comunione solo de residuo i frutti, naturali e civili, dei beni personali, nonché i proventi dell'attività separata dei coniugi, come anche gli incrementi dell'impresa costituita da una parte. Si tratta dunque, di un regime di contitolarità differita ed eventuale relativa ad alcune tipologie di beni considerate dal legislatore che comporta dei problemi di ordine pratico mancando una normativa specifica che attribuisca al soggetto (non titolare di frutti e proventi) un potere di controllo sulla sorte degli stessi. Ne deriva che non può ritenersi fondata ad esempio, la domanda diretta ad accertare, prima del sorgere della comunione de residuo, la violazione, da parte del titolare dei frutti e dei proventi, degli obblighi nascenti dalla comunione legale, e la correlata domanda di risarcimento dei danni.C'è anche un profilo successorio che non è inerente all'ord. inter. in esame, ma che per ragioni di esaustività, si vuole ricordare e che riguarda il conto corrente intestato al solo de cuius. Secondo la giurisprudenza il saldo attivo di un conto corrente bancario o postale intestato in regime di comunione legale dei beni soltanto a un coniuge (ma la considerazione vale anche per l'unito civilmente), e nel quale siano affluiti proventi dell'attività separata svolta dallo stesso, se ancora sussistente, deve considerarsi parte della comunione legale dei beni al momento del decesso dell'intestatario ai sensi dell'articolo 177, comma 1, lett. c). Infatti, allorquando si verifichi in concreto lo scioglimento della comunione determinato dalla morte, per effetto dell'operare della comunione de residuo, il coniuge superstite ha un diritto proprio e non ereditario sulla metà dei frutti e dei proventi residui, anche nel caso che questi fossero stati in proprietà esclusiva del coniuge defunto. (Cass. civ., 6 maggio 2009, n. 10386, in Notariato, 2009, 483; Cass. civ. 22 febbraio 1992, n. 2182, in Vita not., 1992, 1167).

Per avvicinarci al tema affrontato dall'ordinanza interlocutoria in commento, occorre delineare alcune fattispecie particolari, ma molto ricorrenti nella pratica che rendono problematico l'istituto della comunione de residuo intrecciandosi questo con la materia societaria: cosa cade immediatamente in comunione legale? In materia societaria, l'orientamento dominante e seguito generalmente nella prassi, benché assolutamente non pacifico, è quello secondo il quale cadono in comunione legale soltanto le partecipazioni sociali alle quali non è connessa la responsabilità illimitata (ad esempio, le azioni di S.p.A., le quote di S.r.l., la quota di accomandante di S.a.S. e di S.a.p.A.), mentre le altre sono destinate a cadere in comunione de residuo ex articolo 178 del Cc.
La ratio è sempre quella di tutelare il coniuge non imprenditore dai profili di responsabilità derivanti dall'attività dell'imprenditore e, allo stesso tempo, di garantire a quest'ultimo una certa libertà di iniziativa economica.

Il quesito posto dall'ordinanza interlocutoria consiste nello stabilire che tipo di diritto spetti a uno dei coniugi sull'azienda comune de residuo dell'altro, allo scioglimento della comunione legale. La natura del diritto che sorge in capo all'altro coniuge al momento dello scioglimento della comunione risulta essere infatti, particolarmente controversa tra gli interpreti. La stessa Corte di cassazione, nella sentenza del 3 luglio 2015 n. 13760, aveva precisato che: «Non sfugge al Collegio la non unanimità di posizioni in ordine a tale qualificazione giuridica [della comunione de residuo, n.d.a.] e l'affermarsi in dottrina di due tesi opposte. Una che ritiene che si formi ex lege una situazione di contitolarità dei diritti e dei beni che cadono nella comunione de residuo, l'altra che si determini una situazione di natura creditizia da azionare nei confronti del coniuge (o del suo erede come nella specie) in posizione di uguaglianza con gli altri eventuali creditori». Secondo un orientamento, il diritto in esame avrebbe natura reale, conformemente alla lettera della legge che parla proprio di "comunione". Nel momento in cui si scioglie la comunione legale, dunque, i coniugi diventano contitolari dei beni in esame per la quota di un mezzo ciascuno (De Paola - Macrì, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, Milano, 1978, 212; Detti, Oggetto, natura e amministrazione della comunione legale, in Riv. Not., 1976, 1173; Di Transo, La comunione de residuo, in AA.VV., Scritti in onore di Capozzi, I, 1, Milano, 1992, 531 ss.; Santosuosso, Delle persone e della famiglia. Il regime patrimoniale della famiglia, famiglia, in Commentario del codice civile, I, 1, III, Torino, 1983, 178; Galasso, Del regime patrimoniale della famiglia, I, Artt. 159-230, in Comm. Scialoja - Branca, Bologna - Roma, 2003, 240] (in giurisprudenza, di recente, v. Trib. Monza, 26 marzo 2015).

È questa la tesi avanzata dalla moglie ricorrente davanti la Suprema Corte. Secondo altra tesi, invece, il coniuge acquisterebbe unicamente un diritto di credito pari alla metà del valore che i beni in questione hanno al momento dello scioglimento della comunione legale e conseguentemente, il bene rimane formalmente e sostanzialmente di proprietà esclusiva del coniuge che li ha acquistati (Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia, I, in Tratt. Cicu - Messineo, Milano, 1979, 95 e 191; Schlesinger, Della comunione legale, in Cian - Oppo - Trabucchi (diretto da), Commentario al diritto italiano della famiglia, III, Padova, 1992, 122 e 145; A. e M. Finocchiaro, Diritto di famiglia, I, Milano, 1984, 966 ss.; Oberto, La comunione legale tra coniugi, in Trattato Cicu - Messineo, I, Milano, 2010, 871 ss.).
Questo ultimo orientamento, sebbene meno aderente allo spirito della legge, pare essere più conveniente sotto un profilo pratico rispetto alla prima tesi, tanto con riferimento alla tutela dei terzi quanto con riferimento alla tutela del coniuge imprenditore proprio nel momento in cui si scioglie la comunione. Sul punto, anzi, vi è da precisare che secondo un parere espresso dal CNN, (cfr. Quesito n. 479-2007/C, est. S. Metallo, in Studi e materiali, 2007, 2, 1399): "i beni aziendali e gli incrementi non cadono in comunione immediata ma solo eventuale, per quanto di essi residua al momento dello scioglimento della comunione; al contrario, i beni immobili finalizzati e strumentali all'esercizio della professione sono considerati beni personali, sul presupposto che tale destinazione sia stata impressa nell'atto di acquisto e vi abbia aderito il coniuge non acquirente".

In proposito, occorre ricordare che nel caso prospettato nell'ord. interl., la ricorrente pur intervenuta nella stipula aveva dichiarato che gli immobili acquistati, non rientravano nella comunione dei beni in conformità all'articolo 179 lett. d) del Cc. In dottrina, sembra prevalere la tesi secondo cui il coniuge dell'imprenditore acquista un diritto di credito alla metà del valore dell'azienda. è in particolare affermato che: "sembra, a dir poco, incoerente, da parte del legislatore, garantire da un lato la massima autonomia e libertà del coniuge verso taluni beni che, nel corso dello svolgimento del regime legale, assumono natura personale, per poi imporgli, dall'altro, il pesante vincolo della contitolarità proprio al momento dello scioglimento della comunione. Il passaggio automatico dei beni comuni de residuo dalla titolarità e disponibilità esclusive del coniuge al patrimonio in comunione si tradurrebbe in una menomazione dell'autonomia e della libertà del coniuge stesso, che il legislatore ha, invece, inteso salvaguardare nella fase precedente allo scioglimento" (Oberto, Sulla natura della comunione residuale al momento della cessazione del regime legale, in Fam. dir., 2011, 4, 369 ss.).

La giurisprudenza, per parte sua, ha avuto poche occasioni di pronunciarsi sulla natura della comunione de residuo dell'azienda, e per questo motivo non è possibile indicare un orientamento come prevalente. (A favore della tesi del diritto di credito si sono pronunciati: Cass. pen., 29 novembre 2010, n. 42182, citata nell'ord. interl. in commento, in un caso in cui l'immobile continuava ad essere destinato all'esercizio dell'impresa e anche il Trib. Camerino, 5 agosto 1988, in Foro it., 1990, I, 2333, con nota di Parente. Sembra doversi interpretare in questo modo anche l'affermazione, contenuta in Cass., 29 novembre 1986, n. 7060, secondo cui, allo scioglimento della comunione, si dovrà tener conto del valore dei beni destinati all'impresa «in accredito al coniuge non imprenditore»).Tra le due tesi indicate sembra preferibile quella che riconosce al coniuge un diritto di credito, essendo quella che realizza il miglior contemperamento tra la tutela della libertà d'impresa e dell'integrità dell'azienda, da una parte, e l'interesse del coniuge non imprenditore a partecipare al valore economico dell'azienda e/o dei suoi incrementi, dall'altra. Prima di tutto, questa soluzione ha il pregio, con riferimento all'ipotesi in cui l'attività d'impresa continui dopo lo scioglimento della comunione legale, di assicurare autonomia all'imprenditore nella gestione dei beni aziendali, così tutelandone in modo efficace la libertà d'iniziativa economica, garantita dall'art. 41 Cost.
Diversamente, se l'azienda divenisse oggetto di contitolarità tra i coniugi, i relativi atti di amministrazione e di disposizione dovrebbero essere concordati tra i coniugi, secondo le regole della comunione ordinaria, con conseguenti rallentamenti nell'attività d'impresa. Si consideri, per esempio, il caso in cui uno dei coniugi sia titolare di un'impresa di costruzioni (è in buona sostanza, l'ipotesi posta all'attenzione dell'ord. interl.): durante la comunione legale, non potrebbe dubitarsi del fatto che sia i terreni da lui acquistati che le costruzioni realizzate siano comuni de residuo, in quanto rientrano nell'attività d'impresa, e siano quindi attratti al regime dell'art. 178 cod. civ. Se però, allo scioglimento della comunione conseguisse la contitolarità sui beni indicati, per gli atti di vendita delle palazzine occorrerebbe il consenso dell'altro coniuge, con inevitabili ritardi nell'attività dell'impresa. Al contrario, riconoscendo al coniuge dell'imprenditore un diritto di credito, si avrebbe una maggiore stabilità e rimarrebbe integra l'azienda, sottraendola a una futura divisione, che se mai vi fosse non riconoscerebbe all'imprenditore alcun diritto di prelazione (Oberto, Sulla natura della comunione residuale al momento della cessazione del regime legale, in Fam. e dir., 2011, 371 ss., spec. 378 s., testo e nt. 46).

E' questa la tesi seguita dalla difesa del marito nel caso in esame. E sembra essere anche questa la tesi per la quale pare propendano gli Ermellini, richiamando un principio già affermato dalla Corte: In tema di scioglimento della comunione legale tra coniugi, il credito verso il coniuge socio di una società di persone, a favore dell'altro coniuge in comunione "de residuo", è esigibile al momento della separazione personale, che è causa dello scioglimento della comunione, ed è quantificabile nella metà del plusvalore realizzato a tale momento, consentendosi altrimenti al coniuge-socio di procrastinare "sine die" la liquidazione della società o di annullarne il valore patrimoniale.

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