Lavoro

Lavoratrici in gravidanza e mancato rinnovo di un contratto a termine: un caso di discriminazione diretta

In relazione alla ripartizione dell'onere probatorio, la Suprema Corte ribadisce il proprio costante orientamento come già delineato in via generale nei giudizi antidiscriminatori, ossia che i criteri di riparto non seguono i canoni ordinari di cui all'art. 2729 c.c., bensì quelli speciali che stabiliscono un'agevolazione in favore del ricorrente

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di Francesco Chinni*

Quello della discriminazione di genere diretta è purtroppo un tema sempre di attualità nell'ambito del diritto del lavoro; sul punto, merita di essere annotata la Sentenza n. 5476 del 26 febbraio 2021 della Cassazione Civile, Sezione Lavoro.

In sintesi, con questa pronuncia la Suprema Corte rimarca come deve essere qualificata come una forma di discriminazione diretta di genere, il mancato rinnovo da parte del datore di lavoro di un contratto a tempo determinato ad una lavoratrice - a causa del suo stato di gravidanza - allorquando quest'ultimo abbia invece riconosciuto il rinnovo del rapporto in favore di colleghi che si trovano nelle medesime condizioni contrattuali.

Infatti, sottolinea la Corte, una tale decisione aziendale integra inevitabilmente una discriminazione basata sul sesso, atteso che - a parità di situazione lavorativa e delle esigenze di rinnovo del datore di lavoro manifestate attraverso il mantenimento in servizio degli altri lavoratori con analoghi contratti - ciò che emerge come elemento distintivo tra le due scelte datoriali è esclusivamente la condizione di gravidanza della lavoratrice rispetto agli altri colleghi.

Più precisamente, la sentenza evidenzia come la discriminazione collegata alla gravidanza ed alla maternità costituisce una particolare sfaccettatura della discriminazione di genere, già oggetto di numerose decisioni della Corte di Giustizia UE e disciplinata nel codice delle pari opportunità tra uomo e donna (art. 25 c. 2 bis D.Lgs. n. 198/2006), nonché in sede comunitaria (art. 157 TFUE; Direttiva 2000/48/CE-Direttiva 2000/78/CE 2004/113/CE; Direttiva 2006/54/CE), successivamente attuata all'interno del nostro ordinamento (D.Lgs. n. 216/03-D.Lgs. n. 198/06).

Affinché la discriminazione possa dirsi concretamente integrata - specifica sempre la Corte - la lavoratrice è tenuta a fornire in giudizio gli elementi di fatto «idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso» (art. 40 D.Lgs. n. 198/2006), che possono essere anche solo desunti da una serie di dati di carattere statistico, quali quelli concernenti le assunzioni, i regimi retributivi, le assegnazioni, i trasferimenti.

Dunque, in relazione alla ripartizione dell'onere probatorio, la Suprema Corte ribadisce il proprio costante orientamento come già delineato in via generale nei giudizi antidiscriminatori, ossia che i criteri di riparto non seguono i canoni ordinari di cui all'art. 2729 c.c., bensì quelli speciali che stabiliscono un'agevolazione in favore del ricorrente ( Cass. n. 14206/13 ).

Ne consegue, sul piano pratico, che in un procedimento anti discriminatorio, mentre la lavoratrice che invoca l'illegittimità della condotta è tenuta a provare - anche per mezzo di elementi presuntivi - il fattore di rischio (ossia il trattamento che risulta meno favorevole rispetto a quello riservato ai colleghi in condizioni analoghe), il datore di lavoro, per escluderla, dovrà invece dimostrare - sulla base di circostanze inequivoche per precisione, gravità e concordanza di significato - che la decisione sarebbe stata operata con i medesimi parametri anche nei confronti di qualsiasi lavoratore privo del fattore di rischio che si fosse trovato nella stessa posizione (in senso conforme, ex plurimis, Cass. n. 1/2020; Cass. n. 25543/2018 ).

Del resto, la necessità di operare dei correttivi ai normali criteri di valutazione probatoria nei casi di discriminazione - che comportano indubbie difficoltà da parte del lavoratore ad offrire validi elementi di prova a sostegno dei propri assunti - era già stata avvertita anche dalla disciplina comunitaria, tanto da spingersi ad offrire a tutti i singoli Stati membri la libertà di prevedere un regime di ripartizione meno gravoso, disponendo espressamente che "Gli Stati membri, secondo i loro sistemi giudiziari, adottano i provvedimenti necessari affinché spetti alla parte convenuta provare l'insussistenza della violazione del principio della parità di trattamento ove chi si ritiene leso dalla mancata osservanza nei propri confronti di tale principio abbia prodotto dinanzi ad un organo giurisdizionale, ovvero dinanzi ad un altro organo competente, elementi di fatto in base ai quali si possa presumere che ci sia stata discriminazione diretta o indiretta… La presente direttiva non osta a che gli Stati membri impongano un regime probatorio più favorevole alla parte attrice" (direttiva n. 2006/54/CE).

La pronuncia offre sicuramente degli spunti di riflessione circa la necessità sempre più stringente di apportare dei meccanismi correttivi alla disciplina del mercato del lavoro in riferimento a queste fattispecie.

Invero, negli ultimi anni la giurisprudenza si è dovuta occupare innumerevoli volte in modo specifico di casi di discriminazione diretta verso donne lavoratrici, divenuto un tema ancor più urgente da affrontare in seguito all'impatto devastante della pandemia da COVID-19 sul mercato del lavoro; invero - come ha reso noto l'ISTAT nel suo ultimo rapporto sul lavoro in Italia (2020) - nel mese di dicembre su 101.000 nuovi disoccupati 99.000 sono donne (il 98%) e rispetto a dicembre dell'anno ancora precedente, su 444.000 persone che hanno perso il lavoro, ben 312.000 sono donne (ossia il 70%).

Analoghe considerazioni possono trarsi dall'indagine nota con il titolo di realizzata da Ipsos per "WeWorld", che certifica che in Italia una lavoratrice su due ha subito nell'ultimo anno un peggioramento della propria situazione economica e che, tra queste, sono le più giovani a pagare il prezzo più alto: 6 su 10, nella fascia di età tra i 25 e i 34 anni.

Di fronte a questi dati è quanto mai opportuno ricordare che il lavoratore che intende agire in giudizio per opporsi ad un comportamento discriminatorio può ricorrere avanti al Tribunale, in funzione del Giudice del Lavoro, ciò facendo sia direttamente che delegando il Consigliere di parità. Infatti, quest'ultimo - nominato a livello nazionale, regionale e provinciale - fra i diversi compiti ha anche quello di intraprendere ogni utile iniziativa, ai fini del rispetto del principio di non discriminazione e della promozione di pari opportunità per lavoratori o lavoratrici (cfr. artt. 36 e 41 bis, D.Lgs. n. 198/2006).

Le azioni individuali - promovibili in via d'urgenza (ex art. 38 D.Lgs. n. 198/2006) od in via ordinaria ex art. 410 c.p.c. - possono essere precedute dalle procedure di conciliazione previste dai contratti collettivi e sono volte ad ottenere la condanna al risarcimento del danno patito come riconducibile alla condotta illegittima, nonché ad ottenere un ordine di cessazione del comportamento e la rimozione degli effetti.

Il costante intervento che la giurisprudenza del lavoro è chiamata ad operare in queste ipotesi fa comprendere come per garantire il principio di rilievo costituzionale dell'eguaglianza sostanziale (e non solo formale tra cittadini), siano oggi quanto mai indispensabili non solo azioni ed interventi di prevenzione, monitoraggio e rimozione delle cause che determinano le discriminazioni, ma anche azioni positive e nuove forme di tutele concrete che permettano ai soggetti più svantaggiati ed a rischio di recuperare e colmare il gap in cui questi ultimi, loro malgrado, sovente incontrano nel mercato del lavoro.

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*A cura dell'Avv. Francesco Chinni, Partner 24 ORE Avvocati

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Valeria Zeppilli

Quotidiano del Lavoro