Le sezioni Unite chiariscono i rapporti tra concordato preventivo e fallimento
Con le due sentenze 9934 e 9936 del 2015 – deliberate nella medesima camera di consiglio del 10 febbraio, redatte dallo stesso estensore e pubblicate insieme – le sezioni Unite sono intervenute a chiarire sotto diversi profili i reciproci rapporti tra concordato preventivo e fallimento.
Si tratta palesemente di questioni assai rilevanti sotto l'aspetto non soltanto teorico, ma anche e soprattutto pratico: nonostante, infatti, oggigiorno nella prassi applicativa la procedura di fallimento vada acquisendo un ruolo residuale, lasciando sempre più il campo agli accordi di ristrutturazione dei debiti e, soprattutto, al concordato preventivo, non può mai dimenticarsi che questi sono istituti caratterizzati dall'essere alternativi al fallimento, il quale – inevitabilmente – conserva un ruolo centrale nel sistema della risoluzione delle situazioni di insolvenza.
Le procedure concorsuali cosiddette “alternative” al fallimento, infatti, possono adeguatamente funzionare a condizione che il fallimento (o – quanto meno – la minaccia della sua apertura) sia concreta e reale e non meramente illusoria e teorica.
Le due sentenze in esame (delle quali in questa sede si intende dare un primissimo inquadramento, senza alcuna pretesa di esaurire tutte le questioni e le problematiche connesse) sembrano condividere questo punto di vista e, ponendo attenzione più alle conseguenze pratiche applicative che non all'inquadramento giuridico formale, cercano di precisare i rapporti esistenti tra fallimento e concordato in relazione alle ipotesi sia, da un lato, di contemporanea pendenza dei relativi procedimenti, sia, dall'altro lato, di passaggio da questo a quello.
La non automaticità della dichiarazione di fallimento - Con specifico riguardo al passaggio dal procedimento di concordato preventivo a quello di fallimento, la sentenza n. 9934 del 2015 torna a occuparsi della questione circa l'ammissibilità della dichiarazione d'ufficio del fallimento in seguito all'esito negativo della domanda di concordato preventivo.
Come ben noto, nella sua versione originaria del 1942, era previsto che il procedimento di dichiarazione di fallimento potesse essere instaurato anche d'ufficio e, in modo perfettamente coerente, l'articolo 186 della legge fallimentare stabiliva che il tribunale nel pronunciare l'annullamento o la risoluzione del concordato preventivo dovesse/potesse automaticamente dichiarare il fallimento del medesimo imprenditore.
La riforma organica del 2006 ha:
- da un lato, modificando l'articolo 6 della legge fallimentare, soppresso l'iniziativa d'ufficio del giudice per la dichiarazione di fallimento;
- dall'altro lato, non è intervenuta sull'articolo 186 citato.
Questo, infatti, è stato integralmente sostituito soltanto dal cosiddetto decreto correttivo del 2007, così espressamente eliminando la possibilità per il giudice di procedere alla dichiarazione di fallimento in caso di annullamento e risoluzione del concordato preventivo.
La ricordata successione di interventi legislativi ha sollevato la questione se nell'ipotesi di pronunce di annullamento o risoluzione del concordato rese nel periodo “intermedio” (cioè tra il 2006 e il 2007) il giudice potesse/dovesse dichiarare d'ufficio il fallimento.
Il precedente conforme e gli argomenti che escludono l'automaticità del fallimento – Come ricordato in motivazione, già investita della questione, la Suprema corte aveva affermato che la riforma dettata dal Dlgs 9 gennaio 2006 n. 5, in difetto di diversa disposizione transitoria (riferendosi alle sole procedure di fallimento e di concordato fallimentare il suo articolo 150, che per esse ha sancito l'ultrattività della disciplina precedente), è immediatamente applicabile alle fattispecie di concordato preventivo, in corso di esecuzione al momento della sua entrata in vigore, derivandone, pertanto, l'impossibilità della dichiarazione di fallimento d'ufficio dell'imprenditore ammesso al concordato, in ipotesi di sua risoluzione (Cassazione, I sezione civile, 23 novembre 2012, n. 20757).
In tale occasione, più in particolare, nella parte motiva si era affermato che «Il Dlgs n. 5 del 2006, modificando gli articoli 6 e 147 della legge fallimentare, nella parte in cui prevedevano la dichiarazione di fallimento d'ufficio, ha tacitamente abrogato, per incompatibilità, le altre disposizioni della legge fallimentare che, nella formulazione successiva al citato Dlgs n. 5 del 2006 ma anteriore al cd. decreto correttivo (Dlgs n. 169 del 2006), prevedevano ancora la dichiarazione d'ufficio del fallimento».
Questa soluzione è stata ora avallata dalla decisione delle sezioni Unite in commento, in cui i medesimi argomenti sono ribaditi in motivazione e sono rafforzati altresì dalla condivisibile considerazione secondo cui, in seguito alla riforma del 2005, presupposto oggettivo della procedura di concordato preventivo non è soltanto lo “stato d'insolvenza” ex articolo 5 della legge fallimentare, ma anche lo “stato di crisi”, sicché «tale mutamento del presupposto della procedura era perciò incompatibile con l'assunto di una dichiarazione automatica del fallimento all'esito della risoluzione del concordato preventivo», restando, pertanto, comunque e sempre irrilevanti le eventuali istanze di fallimento anteriori all'ammissione alla procedura di concordato.
Una difficile valutazione della pronuncia n. 9934 – Le argomentazioni poste a fondamento della decisione in esame, come accennato, non possono non essere condivise, ancorché, a propria volta, sollevino ben più di una questione e di una perplessità, le quali possono essere ben compendiate nell'ultima ragione addotta dalle sezioni Unite a sostegno di tale conclusione, e in particolare quella secondo cui «l'abrogazione espressa della dichiarazione di fallimento d'ufficio ad opera del decreto correttivo n. 169/2007, che ha riscritto l'articolo 186 della legge fallimentare, ha un valore meramente ricognitivo di una abrogazione implicita che è stata indotta nel precedente testo dell'articolo dal Dlgs n. 5/2006, che ha riformulato l'articolo 6 della legge fallimentare in modo da rendere incompatibile con la sopravvivenza dell'istituto nell'ambito della disciplina del concordato preventivo e che ha perciò superato il tralaticio ma disarmonico vecchio testo normativo, divenuto incoerente sia con l'abrogazione dell'istituto della dichiarazione di fallimento d'ufficio, sia con il mutamento dei presupposti della procedura di concordato preventivo».
Lo stralcio di motivazione sopra riportato rappresenta forse l'argomentazione più convincente: la circostanza che il legislatore – seppure a posteriori rispetto al momento rilevante nella fattispecie concreta decisa – sia intervenuto modificando espressamente il diritto positivo in senso conforme alla soluzione raggiunta dall'interprete sulla base di argomentazioni sistematiche non può non spingere il medesimo interprete a trovare conferma della propria convinzione, per cui proprio quella soluzione fosse voluta fin dall'esordio della stagione delle riforme delle procedure concorsuali.
Ma nel contempo, a ben riflettere, la medesima considerazione probabilmente desta qualche preoccupazione circa il rapporto tra interprete e legislatore, sollevando l'interrogativo se sia l'interprete ad adeguarsi alle indicazioni del legislatore, come stabilito dall'articolo 101, comma 2, della Costituzione, ovvero se l'interprete adegui le indicazioni del legislatore alle proprie conclusioni.
Purtroppo lo stato in cui attualmente versa la legislazione nazionale fa sì che l'interprete debba compiere acrobazie ermeneutiche per poter dare un senso coerente a molte disposizioni, evitando contraddizioni e antinomie, ma nella fattispecie de qua il carattere speciale della previsione poteva con una certa serenità indurre la legittima convinzione che il legislatore volesse sanzionare in modo assai rigoroso ed efficace, anche a prescindere dalla sussistenza dello stato d'insolvenza e dell'istanza di parte, il debitore ammesso al concordato preventivo omologato se, ai sensi degli articoli 137 o 138 della legge fallimentare, rispettivamente, «non adempie regolarmente gli obblighi derivanti dal concordato», o ha «dolosamente esagerato il passivo ovvero sottratto o dissimulata una parte rilevante dell'attivo».
A questo riguardo, infatti, vale sottolineare che la soluzione adottata in via definitiva dal “decreto correttivo” del 2007 e anticipata dalla pronuncia in commento già a far data dalla riforma organica del fallimento, appare non idonea a sanzionare efficacemente le condotte del debitore: in particolare, in difetto della dichiarazione d'ufficio e automatica del fallimento, da un lato, occorre che un creditore o il pubblico ministero avanzino l'istanza di fallimento e, dall'altro, non è chiaro se sia necessario attendere il passaggio in giudicato della sentenza di annullamento o risoluzione del concordato preventivo (conclusione che pare imposta dalla natura “costitutiva” della pronuncia), ovvero – come pure pare preferibile, sulla scorta di quanto già accadeva anteriormente alle riforme ricordate – sia sufficiente la pronuncia di primo grado.
Assai significativo appare la circostanza che, né nella precedente decisione del 2012 né nell'odierna pronuncia delle sezioni Unite, nessuna parola sia stata spesa per escludere o quanto meno minare o mettere in discussione la plausibilità o legittimità di una simile interpretazione dell'articolo 186 della legge fallimentare, la quale, invece, a ben vedere, sarebbe l'unica conforme alla previsione generale di cui all'articolo 12 delle Preleggi, in forza della quale «Nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle prole secondo la connessione di essa, e dalla intenzione del legislatore».
La vicenda che ha dato origine alla pronuncia n. 9936 – Considerazioni analoghe a quelle che precedono possono essere compiute a margine dei sei principi di diritto enunciati espressamente, ai sensi dell'articolo 384, comma 1, del Cpc, nella sentenza n. 9936, resa all'esito di una vicenda assai più complicata e intricata della quale per una migliore comprensione pare opportuno, ancorché in estrema sintesi, cercare di dare conto:
1.una Spa propone domanda di concordato preventivo al Tribunale di Napoli. Questo declina la competenza a favore di quello di Venezia. Il decreto del giudice campano viene impugnato con regolamento di competenza;
2.nelle more della decisione della Suprema corte, il Tribunale di Venezia ammette la Spa al concordato preventivo, ma dopo la relazione del commissario giudiziale, convoca la Spa per la revoca dell'ammissione e la dichiarazione di fallimento;
3.prima che il giudice veneto emani i provvedimenti, il Tribunale di Napoli, su richiesta della Procura della Repubblica e sul presupposto della rinuncia a opera della Spa sia all'eccezione di incompetenza territoriale sia alla procedura di concordato preventivo pendente avanti al Tribunale di Venezia, dichiara il fallimento della Spa;
4.il Tribunale di Venezia, preso atto dell'intervenuta dichiarazione di fallimento, solleva il conflitto di competenza avanti alla Corte di cassazione, ex articoli 9-ter, comma 2, della legge fallimentare e 45 del Cpc;
5.la sentenza dichiarativa del fallimento del Tribunale di Napoli viene impugnata con reclamo avanti alla Corte d'appello partenopea, la quale, da un lato, con sentenza non definitiva, risolve alcune questioni, e, dall'altro lato, dispone la sospensione necessaria del giudizio relativamente alla questione di incompetenza in attesa della decisione della Corte di cassazione;
6.la Corte di cassazione, riuniti i procedimenti di impugnazione del decreto del tribunale di Napoli di incompetenza e di conflitto positivo di competenza sollevato dal Tribunale di Venezia, dichiara che la competenza appartiene al Tribunale di Venezia;
7.ai sensi dell'articolo 9-bis, comma 2, della legge fallimentare, la procedura di fallimento già aperta a Napoli prosegue avanti al Tribunale di Venezia che, con due distinti provvedimenti, da un lato, nomina un nuovo curatore e un nuovo giudice delegato e, dall'altro, dichiara improcedibile il procedimento di concordato preventivo;
8.entrambi i provvedimenti sono reclamati avanti alla Corte d'appello di Venezia, avanti alla quale è altresì riassunto il reclamo inizialmente proposto avanti alla Corte d'appello di Napoli e sospeso in attesa delle determinazioni sulla competenza della Corte di cassazione;
9.riuniti i tre reclami, la Corte d'appello veneziana revoca il fallimento della Spa, rilevando che erroneamente, a seguito di sua rinuncia, la medesima non si sarebbe più trovata nel procedimento di concordato preventivo, e, pertanto, rimette gli atti al Tribunale di Venezia per la prosecuzione di quest'ultima procedura.
Sia questa ultima decisione della Corte d'appello di Venezia, sia la sentenza non definitiva della Corte d'appello di Napoli (ricordata supra, sub 6), vengono impugnate con ricorso per cassazione, i quali, atteso che hanno a oggetto procedure concorsuali a carico del medesimo soggetto, vengono riuniti e decisi dalle sezioni Unite con la sentenza n. 9936 in commento.
La sospensione dopo la proposizione del regolamento di competenza d'ufficio – La prima questione affrontata dalla pronuncia in esame riguarda gli effetti della proposizione del conflitto positivo di competenza.
In proposito la Suprema corte, come ricordato in motivazione, ha confermato una propria risalente decisione (Corte di cassazione, sezione I, 25 marzo 1976 n. 1073), che aveva affermato che «Dal carattere inderogabile della competenza per territorio ad emettere la dichiarazione di fallimento, di cui all'articolo 9 della legge fallimentare, e dalla conseguente rilevabilità dell'eventuale difetto di competenza, anche d'ufficio, in ogni fase e grado del giudizio di opposizione avverso la sentenza dichiarativa del fallimento, deriva che il giudice della predetta opposizione, ove abbia notizia che un tribunale diverso da quello che ha pronunciato il fallimento, ritenendosi anch'esso competente, abbia avanzato d'ufficio richiesta di regolamento di competenza, al fine di dirimere il virtuale conflitto positivo, deve, in applicazione analogica dell'articolo 48 del Cpc, sospendere il giudizio fino all'esito del procedimento di regolamento. Peraltro, la mancata osservanza di tale obbligo non produce, di per sé, la nullità degli atti processuali compiuti, ivi comprese le sentenze eventualmente pronunciate: detti atti, infatti, siano stati posti in essere prima o dopo il verificarsi della causa di sospensione, risulteranno affetti da nullità solo nel caso in cui il regolamento si concluda con l'affermazione della competenza di giudice diverso da quello che ha pronunciato la sentenza dichiarativa del fallimento, investita dall'opposizione, mentre, in caso contrario, gli atti medesimi rimarranno pienamente validi».
Vale comunque evidenziare che, sebbene con minore enfasi di quanto sottolineato nella massima appena riferita, anche la pronuncia ora in commento afferma che gli atti della procedura compiuti durante la sospensione ex lege ex articolo 48 del Cpc sono nulli soltanto se compiuti dal giudice che viene dichiarato incompetente e non anche se resi dal giudice che all'esito del regolamento viene riconosciuto come competente.
La soluzione ora ribadita dalle sezioni Unite appare pienamente condivisibile in quanto perfettamente coerente con la previsione dell'articolo 48 del Cpc, applicato espressamente in via analogica alla speciale ipotesi, ora espressamente disciplinata dall'articolo 9-ter della legge fallimentare, del “Conflitto positivo di competenza”.
Affermando il principio di diritto sopra evocato, la Suprema corte ha cassato la sentenza non definitiva resa dalla Corte d'appello di Napoli e, di conseguenza, ha dichiarato assorbite tutte le altre censure mosse ai provvedimenti partenopei.
I rapporti tra procedimenti di dichiarazione di fallimento e di concordato preventivo - Gli altri cinque principi di diritto enunciati dalle sezioni Unite sono tutti rivolti a chiarire e fissare i reciproci rapporti tra i due procedimenti concorsuali.
Il punto di partenza delle considerazioni svolte dalla pronuncia in commento pare poter essere individuato nella già esaminata (con riguardo alla sentenza n. 9934) circostanza che le due procedure non sono più legate da una successione automatica: in caso di insuccesso del concordato preventivo, diversamente dal passato, come già visto, non scatta più in modo direttamente consequenziale la dichiarazione di fallimento, atteso che sono, invece, sempre necessari: sia l'istanza di fallimento, sia l'accertamento dello “stato d'insolvenza”, posto che il concordato preventivo può essere richiesto anche in presenza del più ampio (e potenzialmente meno grave) “stato di crisi”.
Nel contempo, peraltro, come correttamente ricordato in motivazione:
- la domanda di concordato preventivo può ammissibilmente essere proposta finché il debitore non è dichiarato fallito,
- in difetto di qualsiasi efficacia prenotativa dell'istanza di fallimento, la domanda di concordato preventivo può essere proposta anche nelle more tra la domanda di dichiarazione di fallimento e l'accoglimento della medesima;
- il concordato “preventivo” è tale proprio perché è funzionale a “prevenire”, cioè evitare, la dichiarazione di fallimento;
- il comma 2 dell'articolo 69-bis della legge fallimentare (introdotto dal Dl 12 giugno 2012 n. 83, convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 2012 n. 134), espressamente disciplina l'ipotesi cosiddetta di consecuzione di procedure, cioè di passaggio del medesimo imprenditore commerciale dal concordato preventivo al fallimento, stabilendo che il decorso dei termini del periodo sospetto legale «decorrono dalla data di pubblicazione della domanda di concordato nel registro delle imprese», al fine – stando a quanto rilevato dalle sezioni Unite – «di evitare che i creditori possano subire un danno per il ritardo nella dichiarazione del fallimento, derivante dalla necessità del previo esame della domanda di concordato».
Le conseguenze – La conclusione cui perviene la sentenza in commento, infatti, è assai articolata, affermando che non esiste un rapporto di pregiudizialità tecnico-giuridica tra procedimento di concordato preventivo e fallimento, con le plurime conseguenze che:
- la dichiarazione di fallimento può essere pronunciata anche nella pendenza dell'impugnazione del provvedimento di mancata omologazione del concordato;
- la proposizione della domanda di concordato può intervenire, come già anticipato, anche successivamente a quella di dichiarazione di fallimento, senza che ciò importi la sospensione necessaria del procedimento per l'apertura della procedura fallimentare, procedimento che, all'opposto, può proseguire e, perfino, concludersi con un decreto di rigetto, ma - di regola - «impedisce temporaneamente soltanto la dichiarazione di fallimento»;
- quest'ultimo effetto non può – eccezionalmente – prodursi ove l'istanza di ammissione al concordato preventivo sia funzionale al «palese scopo di differire la dichiarazione di fallimento», nel qual caso, costituendo una «violazione dei canoni generali di correttezza e buona fede e dei principi di lealtà processuale e del giusto processo», posto che «si utilizzano strumenti processuali per perseguire finalità eccedenti o deviate rispetto a quelle per le quali l'ordinamento li ha predisposti», la domanda di concordato, integrando un ipotesi di “abuso del processo”, è inammissibile;
- in conclusione, valorizzando una giurisprudenza che dà un significato assai ampio al concetto di continenza (comprensivo anche delle ipotesi in cui tra due cause sussista un rapporto di interdipendenza, per prospettare con riferimento alla medesima situazione giuridica domande contrapposte e alternative), si conclude che il rapporto esistente tra domanda di concordato preventivo e istanza o richiesta di fallimento – in termini positivi – può e deve essere qualificato come rapporto di “continenza”, con conseguente applicabilità degli articoli 273 e 39, comma 2, del Cpc, a seconda che, rispettivamente, i procedimenti pendano o meno dinanzi al medesimo ufficio giudiziario;
- da ultimo, lo stretto collegamento esistente tra i procedimenti di concordato preventivo e fallimento, fa sì che ogni qualvolta, dichiarata l'inammissibilità della domanda di concordato preventivo, sia aperto il fallimento, il debitore, in sede di reclamo avverso la sentenza di apertura della procedura fallimentare, possa censurare anche la dichiarazione d'inammissibilità, in quanto immediato e diretto presupposto per l'apertura della procedura concorsuale.
Una difficile valutazione della pronuncia n. 9936 – Come anticipato, analogamente a quanto osservato con riguardo alla sentenza n. 9934, risulta impossibile dare una valutazione completamente e incondizionatamente positiva alla decisione n. 9936 in commento, nonostante la medesima presenti una pluralità di rilievi assolutamente condivisibili.
Volendo, innanzi tutto, segnalare gli aspetti più apprezzabili della pronuncia in esame, devono essere indicati:
- da un lato, il riconoscimento del carattere squisitamente “privatistico” della procedura di concordato preventivo, nella quale, oramai, l'autorità giudiziaria è spogliata pressoché di qualsiasi valutazione sulla convenienza economica della proposta di concordato, che è rimessa integralmente ai creditori chiamati a votare la proposta di concordato: l'autorità giudiziaria deve vigilare sul rispetto delle regole che devono assicurare innanzi tutto la correttezza e completezza delle informazioni;
- dall'altro lato, la qualificazione del rapporto tra i procedimenti per l'ammissione al concordato preventivo e per la dichiarazione di fallimento in termini di “continenza” ai sensi dell'articolo 39 del Cpc: si tratta di una qualificazione che, sebbene forse possa apparire ai puristi non esatta (diversamente da quanto affermato in motivazione, il presupposto oggettivo delle due procedure non è identico, posto che sono, rispettivamente, lo stato di crisi e lo stato d'insolvenza), presenta il grande vantaggio di consentire/imporre l'applicazione di un regime giuridico processuale assai appropriato e opportuno.
In particolare (come in parte già accennato immediatamente sopra), giusta questa indicazione delle sezioni Unite:
- le domande di fallimento e di concordato preventivo possono essere avanzate in momenti diversi e la proposizione dell'una non impedisce la proposizione dell'altra e viceversa;
- i relativi procedimenti devono essere trattati congiuntamente avanti al medesimo non soltanto ufficio giudiziario, ma anche collegio (la sola applicazione di queste regole avrebbe di per sé evitato l'insorgere dell'intricata vicenda processuale sopra ricordata, nonostante debba sottolinearsi che, in deroga alla previsione dell'articolo 39, comma 2, del Cpc, l'articolo 9-ter della legge fallimentare prevede espressamente la possibilità che due diversi tribunali aprano due procedure concorsuali a carico del medesimo soggetto, imponendo al giudice che si è pronunciato successivamente soltanto di richiedere il regolamento di competenza d'ufficio);
- l'istruttoria dei due procedimenti può e deve svolgersi contestualmente;
- i due procedimenti non si collocano in un rapporto di pregiudizialità tecnico-giuridica, ma – ove pendenti contemporaneamente – possono e devono essere valutati contestualmente e unitamente, atteso che pongono questioni logicamente interdipendenti tra di loro. Questo è forse l'aspetto di maggiore rilievo della decisione in commento: attenendosi alle indicazioni delle sezioni Unite, infatti, il giudice investito delle domande sia di concordato preventivo sia di fallimento, può e deve valutare in prima battuta: a) la sussistenza del presupposto soggettivo, costituito dall'essere il debitore che chiede di essere ammesso al concordato o del quale è chiesto il fallimento, imprenditore commerciale; b) se la domanda di concordato preventivo sia o meno abusiva con finalità meramente dilatorie, in caso positivo potendo dedicarsi esclusivamente alle ulteriori questioni attinenti alla dichiarazione di fallimento, altrimenti dovendo in via prioritaria esaurire il procedimento di concordato preventivo;
- i due procedimenti, quanto meno per quanto riguarda le fasi di ammissione e di omologazione del concordato preventivo, possono – e, negli auspici, devono – chiudersi con un unico provvedimento, che si pronunci espressamente sulle due domande, cosicché, alternativamente: da un lato, il concordato è ammesso e/o omologato e la domanda di fallimento è rigettata; dall'altro lato, il concordato preventivo è dichiarato inammissibile o non è omologato e, contestualmente, è aperta la procedura fallimentare, così da evitare la situazione, assai frequente nella pratica, in cui all'insuccesso del procedimento di concordato preventivo non segua l'apertura della procedura fallimentare.
Affianco ai profili positivi evidenziati, peraltro, non può non evidenziarsi un elemento di intrinseca contraddittorietà della pronuncia: sulla base del rilievo secondo cui nei procedimenti di concordato preventivo l'autorità giudiziaria è investita tendenzialmente esclusivamente di valutazioni di legittimità, le Sezioni Unite affermano il principio in virtù del quale deve evitarsi che il rapporto tra concorrenti domande di concordato preventivo e fallimento possa essere risolto discrezionalmente dal giudice, ma questa affermazione viene prontamente smentita o, quanto meno, abbondantemente ritrattata dall'enunciazione del principio di diritto in virtù del quale il giudice ha la facoltà di valutare se l'eventuale domanda di concordato preventivo sia da dichiarare inammissibile per essere abusiva, in quanto funzionale soltanto a ottenere una dilazione di pagamento. Nonostante il carattere tendenzialmente eccezionale di una siffatta dichiarazione d'inammissibilità della domanda di concordato preventivo (che, in linea di principio, impone, di conseguenza, una motivazione più attenta e circostanziata per giustificare la pronuncia di rito), non si può non dubitare che la medesima sia rimessa – in ultima analisi – alla valutazione discrezionale del giudice.
Corte di cassazione – Sezioni Unite – Sentenza 15 maggio 2015 n. 9934
Corte di cassazione – Sezioni Unite – Sentenza 15 maggio 2015 n. 9936