Lavoro

Licenziamento per comporto e discriminazione del disabile: nuova pronuncia della Cassazione

A parere della Suprema Corte la prova liberatoria per il datore di lavoro passa attraverso l’acquisizione di informazioni circa l’eventualità che le assenze per malattia siano connesse ad uno stato di disabilità

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di Tommaso Targa e Leonardo Calella*

In tema di licenziamento per comporto e discriminazione del disabile, manca una disciplina normativa e/o contrattual-collettiva che integri la portata applicativa dell’art. 2110 cod. civ. . Tale lacuna, da un lato, alimenta il proliferare di prassi e orientamenti giurisprudenziali non sempre tra di loro coerenti, a detrimento della certezza del diritto; dall’altro lato, complica la ricerca, nell’operatività quotidiana delle imprese, di soluzioni equilibrate in grado di assicurare un effettivo contemperamento dell’interesse del disabile alla conservazione di un posto di lavoro e di quello del datore di lavoro a garantirsi una prestazione lavorativa utile per la propria attività economica.

Nel silenzio del legislatore e della contrattazione collettiva, è (tutt’ora) dibattuto se possa considerarsi discriminatorio il licenziamento per superamento del periodo di comporto intimato dal datore di lavoro, incolpevolmente ignaro della riconducibilità delle assenze per malattia del lavoratore ad una condizione di disabilità: condizione interpretata dalla giurisprudenza estensivamente, come qualsiasi forma di grave patologia invalidante, a prescindere da un formale riconoscimento quale invalidità civile.

Il caso più frequente è quello del dipendente affetto da patologia invalidante che omette, più o meno volontariamente, di informarne il proprio datore di lavoro. A fronte di una lunga serie di assenze per malattia che eccedono il numero massimo protetto dal comporto, il datore di lavoro – ignaro della eziologia degli eventi morbosi e della loro riconducibilità alla patologia - comunica al lavoratore il recesso per superamento del periodo di comporto.

La questione è tutt’altro che secondaria, considerata l’interpretazione estensiva, in alcuni casi oltremisura, delle nozioni di invalidità e di discriminazione indiretta animata dalle pronunce della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

Diversi sono stati, sul punto, gli approdi successivi della giurisprudenza nazionale.

Alcune pronunce di merito hanno ritenuto legittimo il recesso intimato dal datore di lavoro che fosse incolpevolmente ignaro della riconducibilità dei giorni di assenza per malattia ad una invalidità, ove la circostanza non fosse appalesata dai certificati medici inviati dal dipendente all’azienda: nei certificati telematici di malattia trasmessi al datore di lavoro sono presenti delle caselline che possono essere flaggate dal medico del SSN al fine di specificare che l’assenza è dovuta a “stato patologico sotteso o connesso alla situazione di invalidità riconosciuta”, oppure a una “patologia grave che richiede terapia salvavita”.

In tal senso, la Corte di Appello di Torino, nella sentenza del 3 novembre 2021, n. 604 ha postulato l’onere per il dipendente di comunicare al datore di lavoro quali assenze siano ricollegate alla disabilità sofferta, anzitutto, barrando la casella dei certificati medici che ricollega la malattia ad una situazione di invalidità riconosciuta.

L’inadempimento del lavoratore all’obbligo di cooperazione giustificherebbe il computo nel calcolo delle giornate di assenze correlate all’invalidità e la conseguente legittimità del licenziamento per superamento del periodo di comporto. Negli stessi termini si è anche espresso il Tribunale di Vicenza, nella sentenza del 27 aprile 2022, n. 181.

Con la sentenza n. 9095 del 31 marzo 2023, la Corte di Cassazione ha, tuttavia, recisamente escluso che la mancata conoscenza della riconducibilità delle assenze per malattia del dipendente alla patologia invalidante possa escludere la sussistenza della discriminazione e giustificare la legittimità del recesso. La discriminazione, a detta della Corte, opera in modo oggettivo, prescindendo dall’intento soggettivo che guida la condotta del datore di lavoro.

Peraltro, nella predetta sentenza, la Suprema Corte ha prefigurato una residua rilevanza probatoria della conoscenza della situazione di disabilità del lavoratore, chiarita in seguito da due recentissime pronunce di legittimità.

In particolare, nella sentenza n. 11731 del 2 maggio 2024, la Suprema Corte ha, anzitutto, ribadito l’irrilevanza dell’accertamento dell’intenzionalità della discriminazione, dovendosi avere riguardo solo all’effetto dalla condotta datoriale sul dipendente. Tuttavia, se è vero che l’impossibilità del datore di lavoro di conoscere la natura degli eventi morbosi non può escludere di per sé la discriminazione, è altrettanto vero che tale circostanza può costituire un elemento di prova a supporto dell’insussistenza della discriminazione lamentata dal lavoratore. Nel far ciò, la Cassazione ha stabilito che l’azienda – consapevole, nella specie, della sussistenza di una condizione di handicap del proprio dipendente – è tenuta a provare di essersi attivata per chiarire le ragioni dell’assenza per malattia del lavoratore e la loro eventuale riconducibilità ad una disabilità.

Tale orientamento è stato confermato dalla Suprema Corte nella recentissima sentenza n. 14316 del 22 maggio 2024, la quale ha equiparato il caso in cui il datore di lavoro colpevolmente ignori la disabilità del dipendente a quello in cui quest’ultimo, pur non avendo conoscenza della disabilità, nondimeno, può averne contezza, con ordinaria diligenza (dalla sorveglianza sanitaria obbligatoria, ovvero dalla documentazione, tra cui i certificati medici, trasmessa dal lavoratore). Dall’altra parte, ha precisato che la prova liberatoria per il datore di lavoro passa attraverso l’acquisizione di informazioni circa l’eventualità che le assenze per malattia siano connesse ad uno stato di disabilità.

La richiesta di informazioni da parte del datore di lavoro al dipendente viene considerata, nell’articolato ragionamento della Corte di Cassazione, passaggio necessario per il rispetto dell’obbligo per l’azienda di adottare ogni accorgimento ragionevole che consenta di evitare il licenziamento del disabile.

A titolo meramente esemplificativo, la Suprema Corte ha ipotizzato che possa costituire ragionevole accomodamento l’allungamento del periodo di comporto o l’espunzione dal relativo calcolo dei periodi di malattia connessi allo stato di disabilità.

In applicazione dei predetti principi, a fronte di un reiterato e anomalo numero di assenze per malattia, il datore di lavoro dovrebbe valutare la possibilità di chiedere al proprio dipendente - a maggior ragione in prossimità del decorso del periodo di comporto - quale natura abbiano gli eventi morbosi occorsi. Non sarebbe necessario conoscere la diagnosi esatta, essendo sufficiente accertare se il periodo di assenza per malattia possa ritenersi eziologicamente riconducibile all’invalidità da cui è affetto il lavoratore.

Ciò consentirebbe all’azienda, da una parte, di scorporare dal calcolo del comporto le assenze per malattia riconducibili all’invalidità e, dall’altra parte, di valutare ogni ragionevole accomodamento tecnico-operativo che, come richiesto dalla giurisprudenza di legittimità e della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, consenta al dipendente con menomazioni psico-fisiche di conservare il posto di lavoro.

D’altro canto, si potrebbe argomentare che il legittimo interesse per l’azienda di conoscere lo stato di salute del dipendente non comporti specularmente l’obbligo per quest’ultimo di dare riscontro alla richiesta aziendale o, comunque, di rispondervi con dovizia di particolari. Il comportamento non collaborativo del dipendente potrà essere, comunque, oggetto di valutazione in applicazione dei canoni generali di buona fede e valorizzato unitamente ad eventuali ulteriori circostanze dalle quali possa desumersi l’insussistenza, nel caso concreto, di un trattamento discriminatorio.

Peraltro, a fronte della richiesta del datore di lavoro di chiarire la connessione tra l’assenza per malattia e la disabilità, il dipendente potrebbe lamentare una violazione della propria sfera della vita privata ovvero spingersi a contestare la ritorsività del recesso.

Il dialogo con il lavoratore dovrà quindi essere mantenuto entro i limiti del diritto alla riservatezza e alla privacy, onde evitare che una iniziativa, presa in buona fede, possa ritorcersi contro il datore di lavoro stesso. Di qui la necessità che qualsiasi richiesta al lavoratore sia formulata “ in punta di penna ”, manifestando buona fede e rispetto della sua condizione di disabilità.

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*A cura di Tommaso Targa e Leonardo Calella – Trifirò & Partners Avvocati

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