Lavoro

Licenziamento disciplinare, la "clausola elastica" non esclude la sanzione conservativa

Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 20780 depositata oggi, accogliendo il ricorso di un quadro direttivo dell'Agenzia delle entrate

di Francesco Machina Grifeo

Più margini per il giudice del lavoro nell'applicare una sanzione conservativa al dipendente licenziato. Egli, infatti, può far rientrare la condotta tra quelle non punite con una sanzione espulsiva anche se il contratto collettivo di categoria non l'ha in tal modo espressamente tipizzata ma si è pronuciato unicamente per clausole generali. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 20780 depositata oggi, accogliendo il ricorso di un quadro direttivo dell'Agenzia delle entrate licenziato per essersi attivato a favore di una donna, prima che le fosse notificato un atto di pignoramento, per non avviare la procedura esecutiva presso terzi (fatti accertati in sede penale).
In sede di reclamo, la Corte d'appello di Napoli in parziale riforma della decisione impugnata, aveva dichiarato risolto il rapporto lavorativo condannando il Fisco al pagamento di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva nella misura di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto. Contro questa decisione il dipendente ha proposto ricorso.

Nell'accogliere la doglianza, la Sezione lavoro, rafforza un recentissimo indirizzo (Cass. n. 11665/2022) affermando che: "In tema di licenziamento disciplinare, al fine di selezionare la tutela applicabile (tra quelle previste dall'art. 18 commi 4 e 5 della legge n. 300 del 20 maggio 1970, come novellata dalla legge n. 92 del 28 giugno 2012), è consentita al giudice la sussunzione della condotta addebitata al lavoratore ed in concreto accertata giudizialmente nella previsione contrattuale che punisca l'illecito con sanzione conservativa anche laddove tale previsione sia espressa attraverso clausole generali o elastiche". "Tale operazione di interpretazione e sussunzione – prosegue la Corte - non trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato restando nei limiti dell'attuazione del principio di proporzionalità come già eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo".

Nello specifico, dunque, la Corte di appello nel ritenere che il fatto non potesse, in assenza di una tipizzazione da parte del C.c.n.l. degli illeciti disciplinari per i quali può essere comminata una sanzione conservativa, rientrare nell'ambito della tutela di cui all'art. 18, comma 4, l. n. 300/1970, "si è sottratta al doveroso compito di verificare se le condotte contestate al lavoratore potessero o meno configurare, in relazione alle clausole di cui al medesimo c.c.n.l. (gravità o recidività della mancanza o grado della colpa) un comportamento punibile con una sanzione conservativa (dal rimprovero scritto fino alla sospensione) e, se del caso, di applicare la tutela prevista dal citato comma 4".

La tipizzazione operata dalla disciplina collettiva, spiega la Cassazione, "non può essere di per sé decisiva e utilizzabile come elemento dirimente per tracciare i contorni ed i limiti delle diverse tutele da applicare qualora si accerti l'illegittimità del recesso". "Nel caso in cui nel contratto collettivo siano presenti formule generali, norme elastiche, norme di chiusura – prosegue -, la mancata tipizzazione di alcune condotte non è di per sé significativa della volontà delle parti sociali di escluderle dal novero di quelle meritevoli di una sanzione conservativa anziché espulsiva".

Infatti, ove si valorizzasse esclusivamente la tipizzazione delle fattispecie a scapito dell'utilizzo delle clausole generali o elastiche "si finirebbe per andare in contrasto con la stessa volontà delle parti sociali che, nell'aprire o chiudere la norma collettiva con una disposizione di contenuto generale, hanno comunque inteso demandare all'interprete la sussunzione della condotta accertata nella nozione generale indicata dalla disposizione collettiva". Si escluderebbe cioè "quella parificazione, demandata al prudente apprezzamento del giudice che vi provvede utilizzando giudizi di valore condivisi, ‘standards' conformi ai valori dell'ordinamento e che trovino conferma nella realtà sociale".

D'altro canto dalla lettura dell'art. 18, comma 4, che dispone che: «Il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, ... perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili», non si evince che la valutazione di proporzionalità della sanzione conservativa rispetto al fatto oggetto di addebito disciplinare debba essere necessariamente espressa a mezzo di una rigida tipizzazione delle condotte sanzionabili in via conservativa, "sicché laddove la disposizione collettiva contenga, accanto a fattispecie tipiche, clausole generali o elastiche di apertura o di chiusura è il giudice che dovrà riempirle di contenuto".

In definitiva, il discrimine tra la tutela reintegratoria e indennitaria collocato nella tipizzazione degli illeciti a opera dei contratti collettivi o dei codici disciplinari "non può escludere la possibilità di interpretazione ed applicazione giudiziale delle clausole generali o elastiche finendo per comprimere lo spazio di una interpretazione estensiva al di là della volontà dello stesso legislatore del 2012 che ha indicato, quale presupposto per l'applicazione del comma 4 dell'art. 18, la circostanza che il fatto rientri "tra le condotte punibili con una sanzione conservativa", ma non ha privato il giudice di tutti gli strumenti che la legge gli accorda per procedere alla sussunzione del fatto in concreto accertato nella fattispecie astratta prevista dalla norma collettiva che ben può presentare elementi costitutivi che necessitano di essere inverati attraverso la concretizzazione del valore enucleato dalla norma elastica. Si tratta del compito proprio del giudice che non gli è sottratto da una esigenza di certezza e di previa conoscenza da parte del datore di lavoro delle conseguenze di un uso non corretto del potere disciplinare".

Diversamente opinando – e ciò è dirimente - verrebbe a crearsi un'ingiustificata disparità di trattamento e un'irragionevole e insanabile aporia fra il comma 4 e il comma dello stesso articolo di legge, nel senso che la meno pregnante tutela di cui al comma 5 si applicherebbe per condotte di rilevanza disciplinare pressoché nulla o minima sol perché non tipizzate dalla contrattazione collettiva (e magari non lo erano state proprio per la loro sostanziale minima rilevanza), mentre sarebbe riservata la più pregnante tutela reintegratoria (quella di cui al comma 4) all'autore d'un illecito di ben maggiore gravità, ma specificamente tipizzato dal testo negoziale come passibile di sanzione.

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