Licenziamento illegittimo se i dati raccolti tramite strumenti tecnologici non sono autorizzati
L’utilizzo dei dati raccolti a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro - inclusi, dunque, quelli disciplinari - è subordinato alla diffusione di un regolamento nell’ambito del quale i lavoratori sono informati sulle «modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli».
La decisione in questione riporta il caso di un dipendente licenziato nel 2010 per avere, in due diverse occasioni, timbrato utilizzando il badge di una collega di lavoro ritardataria, al fine di occultare il mancato rispetto da parte di quest’ultima dell’orario di lavoro.
In via preliminare alla narrativa inerente ai fatti di causa occorre svolgere alcune fondamentali considerazioni.
La prima è che all’epoca vigeva una differente formulazione dell’art. 4 della Legge 300/1970 (St. Lav.) in base alla quale l’utilizzo di tutti gli strumenti di - potenziale - controllo dell’attività lavorativa (inclusi, dunque, quelli automatizzati di rilevazione delle presenze) era ammissibile solo previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali oppure con l’Ispettorato del Lavoro.
La seconda è che in nessun caso, né allora né ora, l’ordinamento italiano ammette l’indiscriminata verifica dell’attività lavorativa.
Questo assioma è corroborato dalla circostanza che per l’installazione degli impianti audiovisivi e/o di strumenti tecnologici, la predetta istanza doveva (e deve) essere corredata dall’indicazione delle esigenze organizzative e produttive o relative alla sicurezza del lavoro (oggi, anche inerenti alla tutela del patrimonio aziendale) che ne legittimano l’utilizzo.
Resta infine inteso che, a seguito dei detti adempimenti ed al ricorrere di fondati sospetti di condotte illecite, il datore di lavoro può svolgere limitate verifiche, finalizzate ad accertare comportamenti i disciplinarmente rilevanti.
Venendo al caso di specie, durante le prime fasi di merito il ricorso del dipendente era stato rigettato in quanto il Foro Romano aveva valorizzato l’orientamento giurisprudenziale che riteneva incompatibile l’applicazione del concetto di « controllo a distanza dell’attività lavorativa » agli strumenti tecnologici volti solo alla raccolta dei dati di ingresso ed uscita dal luogo di lavoro, considerando peraltro tali attività esterne all’espletamento delle effettive mansioni.
In seguito, la Suprema Corte aveva riformato la sentenza di merito e rinviato la causa statuendo come «la rilevazione dei dati di entrata ed uscita dall’azienda mediante un’apparecchiatura predisposta dal datore di lavoro (...) si risolve in un accertamento sul quantum dell’adempimento ed è illegittima ai sensi dell’art. 4 dello St. Lav . se non concordata con le rappresentanze sindacali, ovvero autorizzata dall’ispettorato del lavoro».
In conseguenza al rinvio, la Corte d’Appello, mutando orientamento, dichiarava l’illegittimità del licenziamento in quanto i dati raccolti dai sistemi marcatempo utilizzati dalla Società erano -nei fatti- stati utilizzati proprio per verificare l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro, senza che la stessa avesse preventivamente consultato le Rappresentanze Sindacali o l’Ispettorato del Lavoro.
Confermando tale pronuncia, nella sentenza n. 25645/2023 gli Ermellini hanno statuito per l’illegittimità del licenziamento e la conseguente reintegra del dipendente in quanto i dati raccolti dal sistema elettronico di rilevazione delle presenze non avrebbero potuto né essere raccolti né, tanto meno, essere usati come prove delle condotte contestate, mancando i necessari adempimenti.
Il principio di cui alla presente sentenza trova peraltro parziale applicazione anche a seguito della modifica dell’art. 4 St. Lav., intervenuta nel 2015. Ed infatti, nonostante la formulazione odierna sembrerebbe escludere, prima facie, «gli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e gli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze» dai predetti obblighi di legge, già nello stesso anno il Ministero del Lavoro era intervenuto con una nota specificando come tali strumenti, ritenuti complementari allo svolgimento dell’attività lavorativa, esulino dalle accennate limitazioni solo nel caso in cui gli stessi non subiscano alcuna modifica (ad esempio, con l’inserimento di software di filtraggio o localizzazione) tale da condurre ad un potenziale controllo dell’attività lavorativa.
Non solo: il novellato art. 4 St. Lav. prevede che per l’utilizzo dei dati raccolti a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro - inclusi, dunque, quelli disciplinari - sia subordinato alla diffusione di un regolamento nell’ambito del quale i lavoratori siano informati sulle «modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli».
La recente sentenza della Corte di Cassazione riporta dunque, una volta di più, l’attenzione sulle procedure aziendali che i datori di lavoro devono porre in essere per non vanificare provvedimenti espulsivi in astratto giustificabili.
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*A cura di Francesca Servadei, senior associate dello studio legale Dentons