Lavoro

Licenziamento ritorsivo se segue il rifiuto del part time

Lo ha chiarito la Corte di cassazione, ordinanza n. 18547 depositata oggi, affermando alcuni principi di diritto

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di Francesco Machina Grifeo

Se il licenziamento per crisi aziendale fonda in realtà le sue radici nella mancata disponibilità del dipendente a trasformare il tempo pieno in part time, allora esso assume carattere ritorsivo e come tale è soggetto alla reintegra del dipendente, oltre al risarcimento del danno. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, ordinanza n. 18547 depositata oggi, respingendo il ricorso di una azienda che gestisce supermercati contro la decisione della Corte di appello di Catanzaro che aveva dato ragione al lavoratore.

Secondo il giudice di secondo grado, che ha ribaltato la sentenza del tribunale, il licenziamento difettava del giustificato motivo oggettivo sebbene addotto dal datore. Infatti, per un verso, non si era registrato il “costante andamento negativo del reparto di macelleria”; per l’altro, non era stata dimostrata l’impossibilità del repêchage . E proprio l’insussistenza del motivo oggettivo rivelava “l’esclusiva finalità ritorsiva del licenziamento”, una volta letto in collegamento con “gli ulteriori elementi presuntivi”, e cioè: la contiguità temporale rispetto al rifiuto del part-time e l’iniziativa disciplinare che ne era conseguita.

La Srl ha proposto ricorso sostenendo, tra l’altro, che il “jobs act” del 2015 prevede la reintegra solo quando il licenziamento sia discriminatorio o negli altri casi di nullità “espressamente” previsti dalla legge, tra i quali non rientra il licenziamento intimato a seguito del rifiuto del part time (che è disciplinato dall’articolo 8, comma 1, del Dlgs n. 81/2015 il quale prevede che “il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale o viceversa non costituisce giustificato motivo di licenziamento”).

La Sezione lavoro però ricorda che il lavoratore formalmente è stato licenziato per giustificato motivo oggettivo (g.m.o.) per crisi aziendale non per l’esigenza di trasformazione del contratto full time in part time. E dunque non solo era ingiustificato ma anche ritorsivo perché traeva la propria esclusiva e determinante ragione nel rifiuto del lavoratore di trasformare il rapporto.

La Corte di appello non ha dunque sanzionato con la nullità un licenziamento intimato a seguito del rifiuto del part time, come sostenuto dal ricorrente, ma un licenziamento per g.m.o. motivato da inesistenti e strumentali ragioni riferite ad una crisi aziendale, cui era sotteso l’intento di reagire al legittimo rifiuto del part time.

Il licenziamento ritorsivo, ricorda la Cassazione, è un licenziamento nullo perché illecito. E la recente pronuncia della Consulta (22/2024) ha esteso la reintegra a tutti i casi di nullità del licenziamento (eliminando la parola “espressamente”).

Per la Suprema corte vanno dunque affermati i seguenti principi di diritto: “Il licenziamento motivato dall’esigenza di trasformazione del part time in full time o viceversa va ritenuto ingiustificato alla luce dell’art. 8,1 comma d.lgs. 81/2015; mentre il licenziamento intimato a seguito del rifiuto del part time deve essere considerato ritorsivo in quanto mosso dall’esclusivo e determinante fine di eludere il divieto di cui all’art. 8 d.lgs. 81/2015 attraverso una ingiusta ed arbitraria reazione a un comportamento legittimo del lavoratore, che attribuisce al licenziamento il connotato della vendetta”.

“Al licenziamento ritorsivo – conclude la Corte -, in quanto riconducibile ad un caso di nullità del recesso previsto dell’art. 1345 c.c., si applica la tutela reintegratoria stabilita dall’art. 2 del d.lgs. n. 23 del 2015 dichiarato incostituzionale dalla sentenza n. 22/2024 della Corte Costituzionale”, limitatamente, come visto, alla parola «espressamente».

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