Lavoro

Mail, social media e videoripresa: un bilanciamento tra esigenze contrapposte nel rapporto di lavoro

Si ha un corretto bilanciamento dei contrapposti diritti alla tutela del patrimonio e reputazione aziendale contro la ragionevole aspettativa alla privacy nel luogo di lavoro se vengono rispettati i principi della «ragionevolezza» e della «proporzionalità» e della non eccedenza

di Giovanni Marra, Michela Moretti


La rivoluzione digitale ha spinto il legislatore ad un costante intervento legato all'evoluzione ed all'utilizzo della tecnologia nei vari contesti lavorativi. Abbiamo assistito infatti negli ultimi anni ad un mutamento di grande rilevanza che ha permesso un'evoluzione nei processi lavorativi ed al contempo, su di un binario parallelo, ha reso necessario un costante monitoraggio per permettere la modifica e l'integrazione normativa di adeguamento a tale sviluppo digitale.

La tecnologia ha infatti fornito strumenti all'avanguardia che sono divenuti in breve tempo possibili mezzi di controllo del datore di lavoro sul dipendente, riecheggiando significativamente in ambito privacy. È pacifico che il datore di lavoro possa ragionevolmente e come sempre avvenuto, esercitare un potere di controllo verso il dipendente ciò grazie anche all'offerta di nuovi strumenti tecnologici presenti sul mercato che facilitano le operazioni di sorveglianza.

Il tema della privacy nel rapporto di lavoro dipendente è senza dubbio di delicata portata e si basa innanzitutto su di una premessa necessaria ovvero che in ambito lavorativo vi sono due parti e dunque due contrapposti diritti che meritano tutela, e spesso un interesse prevale sull'altro a seconda di come si risolve il giudizio di bilanciamento degli interessi coinvolti in base alla prevalenza del bene tutelato.

Il giudizio di bilanciamento delle contrapposte esigenze verte per l'appunto sull'esistenza, da un lato del diritto del datore di lavoro di tutelare la sua azienda soprattutto per quanto riguarda gli aspetti reputazionali nonché controllare il corretto esercizio dell'attività lavorativa e, dall'altro, il diritto del lavoratore alla sua riservatezza.

La sorveglianza nei luoghi di lavoro

La sorveglianza all'interno dei luoghi di lavoro è un tema da sempre al centro di dibattiti anche nell'opinione pubblica ed è stato travolto da innumerevoli sviluppi giurisprudenziali e dottrinali anche in considerazione dell'innovazione tecnologica e pertanto della possibilità di utilizzare dispositivi sempre più avanzati, capaci di comprimere la privacy del dipendente.

Si potrebbe verificare infatti un conflitto tra opposte esigenze entrambe meritevoli di tutela e dunque tra la privacy del lavoratore e la necessità del datore di lavoro di proteggere il patrimonio aziendale.

Si tratta di un tema che trova la sua disciplina all'art. 4 dello Statuto dei Lavoratori che è stato significativamente modificato nel 2015 dal decreto legislativo n.23/2015 anche noto come Jobs act, subendo un'evoluzione in considerazione dell'innovazione tecnologica. La norma di riferimento ora non si basa più su di un principio generale di divieto di utilizzo degli strumenti di controllo, bensì sulla identificazione delle condizioni e finalità per l'utilizzo di tali strumenti.

In particolare, la disciplina stabilisce che gli impianti audiovisivi e le altre apparecchiature che consentono anche un controllo a distanza dei lavoratori, possono essere impiegati per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza sul lavoro e la tutela del patrimonio aziendale. Ad ogni modo, prima di poter procedere con l'installazione si dovrà necessariamente stipulare un accordo con la rappresentanza sindacale unitaria o con le rappresentanze sindacali aziendali.

Le indicazioni operative sono rinvenibili nella circolare dell'Ispettorato Nazionale del Lavoro n. 5 del 19 febbraio 2018, che fornisce le linee giuda circa le istruzioni relative all'installazione ed utilizzazione di impianti audiovisivi e di altri strumenti di controllo. L'Ispettorato Nazionale del Lavoro chiarisce che l'eventuale ripresa dei lavoratori di norma dovrebbe avvenire in via incidentale e con caratteri di occasionalità, ma non è vietato, se sussistono le ragioni giustificatrici del controllo, inquadrare direttamente l'operatore, parimenti non è indispensabile specificare il posizionamento predeterminato e l'esatto numero delle telecamere da installare.

Con le modifiche introdotte viene inserita la tutela del patrimonio aziendale tra le ragioni giustificatrici del controllo a distanza del lavoratore. Anche in merito a tale presupposto l'Ispettorato del Lavoro ha specificato che si rende imprescindibile un'attenta valutazione dello stesso poiché l'estensione del termine "patrimonio aziendale" è sottoposta al rischio di non avere netti confini e di conseguenza di non rappresentare un sufficiente ed adeguato filtro all'ammissibilità delle richieste di autorizzazione. Il problema non sussiste invece per quanto riguarda le domande circa i dispositivi collegati agli impianti di antifurto che tutelano il patrimonio aziendale posto che questi sistemi di sicurezza si attivano solo nel momento in cui nel luogo di lavoro non sono presenti i lavoratori e pertanto non permettono alcuna forma di controllo incidentale delle persone. Un'altra importante indicazione dell'Ispettorato del Lavoro è relativa alla possibilità di accesso alle immagini registrate sia da remoto che in loco; per tale attività è previsto che l'accesso debba essere obbligatoriamente tracciato mediante opportune funzionalità che consentono la conservazione dei dati di accesso per un periodo non inferiore a sei mesi.

La giurisprudenza fornisce invece importanti riferimenti rispetto al perimetro spaziale di applicazione della disciplina in esame ed intende come luoghi soggetti alla suddetta normativa anche gli spazi esterni nei quali si lavora in circostanze saltuarie o occasionali; classico esempio è la zona di carico e scarico merci. La norma non si applica dunque agli spazi esterni o estranei alle pertinenze aziendali se non è prestata attività lavorativa in quelle zone.

Con la sentenza del 27 maggio 2015 n.10955 la Cassazione civile chiarisce come l'art. 4 dello Statuto dei Lavoratori "fa parte di quella complessa normativa diretta a contenere in vario modo le manifestazioni del potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro che, per le modalità di attuazione incidenti nella sfera della persona, si ritengono lesive della dignità e della riservatezza del lavoratore" come affermato anche da Cass. 17 giugno 200, n.8250. La vigilanza sul lavoro di lavoro deve pertanto avere una dimensione umana senza approfittare delle potenzialità consentite dalla tecnologia.

Per quanto riguarda invece i possibili controlli difensivi occulti e dunque i controlli diretti ad accertare comportamenti illeciti dei lavoratori, questi possono avvenire solo nel rispetto della dignità dei lavoratori e sono legittimi anche senza accordo sindacale a patto che non derivi anche la possibilità di controlli a distanza. Si tratterà pertanto di controlli atti a tutelare unicamente il patrimonio aziendale anche da eventuali illeciti del personale interno, ma essi restano preclusi per verificare il corretto espletamento dell'attività lavorativa. Tali controlli, come affermato anche da Cass. 27 maggio 2015 n. 10955 sono legittimi se gli illeciti del lavoratore riguardano il patrimonio aziendale e non l'inadempimento della prestazione lavorativa.

Gli stessi sono controlli legittimi anche se effettuati da personale esterno e dunque mediante azioni investigative ed è importante evitare controlli preventivi, ma è comunque possibile effettuare tali controlli se vi è il sospetto o la mera ipotesi che gli illeciti siano in corso di esecuzione.

Ciò che importa invece dal punto di vista prettamente legato all'utilizzabilità delle risultanze di tali controlli è il fatto che gli stessi sono inutilizzabili per contestare altre condotte dunque ad esempio non si potrà contestare una pausa del lavoratore che è durata troppo, ma saranno utilizzabili in caso di contenzioso con il lavoratore.

Resta fermo però che i controlli difensivi per tutelare il patrimonio aziendale, come messo in luce dalla Cassazione nella sentenza 4564/18, costituiscono reato se posti in essere mediante il posizionamento di telecamere collocate all'insaputa del dipendente con l'unico scopo di spiare il suo operato. Non è possibile dunque nascondere una telecamera all'interno dell'ufficio del proprio dipendente, nel caso in esame l'apparecchio era stato posizionato all'interno di un condizionatore al fine di spiare il lavoratore ed è bene tenere in considerazione che tale divieto è esteso anche ai collaboratori esterni che esercitano la propria prestazione all'interno dell'azienda.

Gli impianti audiovisivi ad ogni modo, come stabilito dallo Statuto dei Lavoratori, non possono essere utilizzati per controllare la qualità e la quantità della prestazione del lavoratore e devono rispettare la sua dignità e riservatezza. Non è inoltre possibile un inquadramento prolungato e continuo e deve essere data informazione con appositi cartelli all'interno del luogo di lavoro.

Un altro riferimento normativo che fornisce indicazioni da tenere oggi in considerazione in quelli che sono i suoi aspetti generali, è il provvedimento del Garante Privacy del 2010. Di tale provvedimento preme sottolineare dei limiti stringenti nella videosorveglianza. Il primo obbligo è quello di informativa e dunque deve esserci una chiara informazione sul fatto che si sta accedendo in una zona videosorvegliata, un'informativa chiaramente visibile in ogni condizione di illuminazione ambientale e dunque anche di notte e deve essere collocata prima del raggio d'azione della telecamera.

Il Garante Privacy sottolinea inoltre che, la conservazione delle immagini non deve superare le 24 ore dalla rilevazione delle stesse eccetto per esigenze di conservazione in casi di festività o per assolvere alle richieste dell'autorità giudiziaria, oppure in casi di attività sottoposte a numerosi rischi e che pertanto si può prevedere per le stesse un allungamento dei tempi fino ad un massimo di una settimana.

Il regolamento UE n.679/2016 anche noto come GDPR ha espressamente stabilito che tra gli obblighi del datore assume grande rilevanza quello di garantire un'adeguata informativa sul trattamento dei dati video e sulle tempistiche di conservazione delle immagini registrate da effettuare prima dell'installazione del sistema di vigilanza. A tal fine il datore di lavoro è tenuto a nominare i responsabili e gli incaricati del trattamento delle immagini, inserendo inoltre la videosorveglianza nel registro dei trattamenti ed effettuando la valutazione dei rischi preventiva e dunque la c.d. valutazione d'impatto.

L'European Data Protection Board, ha inoltre recentemente sottolineato come l'impiego della videosorveglianza debba avvenire solo in assenza di altre modalità meno intrusive per raggiungere il medesimo scopo e dunque la videosorveglianza deve essere considerata come l'ultima strada percorribile. L'EDPB mette in evidenza ancora che è possibile installare un impianto di videosorveglianza a condizione che il legittimo interesse del titolare sia preponderante rispetto agli interessi, i diritti e le libertà dei lavoratori dell'azienda e perciò ci si riferisce a tutto ciò che riguarda la protezione dell'azienda da furti e rapine, questo può certamente considerarsi "legittimo interesse".

Le comunicazioni a mezzo e-mail ed il potere di controllo

Il tema della riservatezza del lavoratore assume rilevanza in merito all'utilizzo della posta elettronica; si tratta di un ambito in cui la linea di demarcazione tra esigenza di privacy del lavoratore e prerogative del datore è molto sfumata.

L'account aziendale infatti può essere utilizzato anche per uso personale ed un eventuale accesso del datore di lavoro comporterebbe la conoscenza da parte di quest'ultimo di informazioni personali anche di natura sensibile come le convinzioni religiose, politiche, dati sanitari etc.

D'altronde l'account aziendale di per sé può ingenerare nel dipendente una legittima aspettativa alla riservatezza; si pensi ad esempio ad un account personalizzato con l'utilizzo del nome e cognome e l'accesso riservato esclusivamente al dipendente. Ecco perché è possibile che il lavoratore ne faccia anche un uso privato.
Ci si chiede quindi se tale aspettativa alla confidenzialità delle comunicazioni mail sia assoluta oppure il datore di lavoro vanta una certa prerogativa su di esse.

In realtà il datore di lavoro potrebbe operare un controllo ma con le opportune garanzie che devono essere portate a conoscenza del lavoratore affinché tale potere venga esercitato nel rispetto della liceità di trattamento e con gli opportuni accorgimenti che servono a garantire la dignità e la libertà personale. Tra tali accorgimenti rientrano anche misure volta a ridimensionare ex ante l'aspettativa di riservatezza del dipendente (ad esempio account anonimi condivisi).

Un punto fermo è la non applicabilità delle garanzie previste dallo statuto dei lavoratori posto che lo stesso art. 4 esclude dall'ambito di applicazione gli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa.

Il tema è stato più volte affrontato dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo la quale ha sancito che il datore di lavoro che controlla le mail dei dipendenti viola il diritto alla vita privata in quanto in caso di monitoraggio deve avvisare il dipendente e comunicarne in modo chiaro la natura. Il controllo delle mail è anche inibito all'amministratore di sistema al quale è consentito accedere alle comunicazioni telematiche del lavoratore solo dopo specifica notifica.

Si tratta quindi di un principio di diritto che tout court sancisce il diritto alla riservatezza del lavoratore nelle comunicazioni on line quale estensione del diritto riconosciuto dall'art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) secondo cui ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza.

Anche sulla base dell'evoluzione della giurisprudenza italiana, nel rapporto di lavoro, vi è una ragionevole aspettativa di privacy nell'uso degli strumenti di comunicazione aziendale. Si ha dunque un corretto bilanciamento dei contrapposti diritti se vengono rispettati i principi della «ragionevolezza» e della «proporzionalità» e della non eccedenza. Il giudizio di bilanciamento verte dunque tra tutela del patrimonio e reputazione aziendale contro la ragionevole aspettativa alla privacy nel luogo di lavoro.

Anche il Garante è intervenuto con l'emanazione di linee guida per posta elettronica e internet n. 58 del 10 marzo 2007 contenenti interessanti spunti operativi sul controllo delle mail del dipendente.

Il Garante pone l'accento su di una ipotetica legittima aspettativa da parte del dipendente alla totale confidenzialità delle comunicazioni a mezzo mail sul luogo di lavoro. Tuttavia, le esigenze di tutela e di protezione da parte di abusi del lavoratore in merito ad un utilizzo improprio e personale della posta elettronica impongo la comunicazione allo stesso di accorgimenti difensivi finalizzati ad evitare tali abusi e ad arginare l'assoluta aspettativa alla riservatezza in merito all'utilizzo della mail. È dunque necessaria l'adozione di policy privacy ed accorgimenti utili affinché non vi sia incertezza in merito alla liceità della condotta del datore di lavoro finalizzata a comprendere il contenuto delle comunicazioni a mezzo mail.

Gli accorgimenti suggeriti dal Garante si possono sintetizzare nelle seguenti azioni:

1) la previsione di account aziendali condivisi tra più lavoratori;
2) la previsione di sistemi automatici in caso di assenza del lavoratore ad esempio per ferie, che forniscano le coordinate per contattare in altro modo l'azienda;
3) previsione di una procedura che stabilisca in caso di assenza prolungata la delega ad altro dipendente della lettura dei messaggi e l'inoltro delle comunicazioni rilevanti al datore di lavoro;
4) la predisposizione di messaggi che indichino la natura non personale della comunicazione e che gli stessi sulla base di apposita policy aziendale potranno essere conosciuti dall'organizzazione datoriale del mittente.

Sempre il Garante con provvedimento del 4 dicembre 2019 ha ritenuto illecito il trattamento consistente nella persistente attività dell'account aziendale individualizzato per un ampio periodo di tempo dopo l'interruzione del rapporto di lavoro, con contestuale accesso ai messaggi ivi pervenuti. Il Garante ha infatti dichiarato che il datore di lavoro, in conformità ai principi in materia di protezione dei dati personali, dopo la cessazione del rapporto di lavoro debba rimuovere gli account di posta elettronica aziendali riconducibili a persone identificate o identificabili (in un tempo ragionevole commisurato ai tempi tecnici di predisposizione delle misure), previa disattivazione degli stessi e contestuale adozione di sistemi automatici volti ad informarne i terzi ed a fornire a questi ultimi indirizzi alternativi riferiti all'attività professionale del titolare del trattamento. Si deve provvedere altresì ad adottare misure idonee ad impedire la visualizzazione dei messaggi in arrivo durante il periodo in cui tale sistema automatico è in funzione; l'adozione di tali misure tecnologiche ed organizzative consente di contemperare l'interesse del titolare ad accedere alle informazioni necessarie all'efficiente gestione della propria attività e a garantirne la continuità con la legittima aspettativa di riservatezza sulla corrispondenza da parte di dipendenti/collaboratori nonché dei terzi.

Anche in tale occasione, nel rispetto della ragionevole aspettativa del dipendente ad una riservatezza di alcune tipologie di comunicazione, è stato ribadito che il titolare è tenuto ad informare preventivamente i dipendenti circa le caratteristiche essenziali dei trattamenti che intende effettuare, anche con riferimento all'utilizzo di strumenti messi a disposizione nell'ambito del rapporto di lavoro, ciò anche in applicazione del principio di correttezza.

Nel caso affrontato dal Garante nel provvedimento sopracitato, il datore di lavoro non aveva adottato gli accorgimenti e le garanzie suggerite dallo stesso Garante per tutelare la segretezza delle conversazioni; infatti l'impresa non ha utilizzato sistemi automatici volti ad impedire la lettura dei messaggi in arrivo e ad informare i terzi in merito agli account aziendali da contattare; non basta dunque semplicemente reindirizzare i messaggi presso un altro account aziendale.

Il controllo attraverso i social media

L'utilizzo dei social media e di piattaforme per la socializzazione, condivisione, scambio di opinioni e comunicazione tramite network aziendali pone il problema di come tutelare due esigenze contrapposte e cioè la tutela della reputazione l'immagine dell'impresa, da un lato, e la libertà di espressione e di critica del lavoratore dall'altro.
La comunicazione digitale oggi rappresenta una grande opportunità, tuttavia l'uso improprio o non corretto può tradursi in un comportamento lesivo degli interessi aziendali, della reputazione, del decoro e dell'immagine aziendale in genere.
Il datore di lavoro ha il potere di controllo del lavoratore affinché egli possa verificare il rispetto delle istruzioni impartite avuto riguardo dell'obbligo di fedeltà e di diligenza nello svolgimento della prestazione lavorativa (Cfr. artt. 2086,2104, c.c.) ciò al fine di esercitare eventuali poteri disciplinari ex art. 2106 c.c.

Come visto è lo stesso art. 4 dello statuto dei lavoratori a porre un freno in merito all'utilizzo di strumenti di controllo a distanza del dipendente tramite le garanzie previste (accordo sindacale, autorizzazione ispettorato del lavoro).

Si tratta dunque di avviare un'indagine in merito al rapporto tra legittimo potere di controllo esercitato dal datore di lavoro di fronte all'utilizzo da parte del dipendete di strumenti tecnologici e l'esercizio del diritto di critica e di espressione del libero pensiero del dipendente in qualità di privato cittadino. La giurisprudenza di legittimità ha infatti chiarito che il potere di controllo del datore di lavoro deve trovare un contemperamento nel diritto alla riservatezza del dipendente, ed anche l'esigenza, pur meritevole di tutela, del datore di lavoro di evitare condotte illecite da parte dei dipendenti non può assumere portata tale da giustificare un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza del lavoratore.

Per comprendere dunque quando una esigenza di tutela di una delle parti coinvolte nei rapporti di lavoro prevalga sull'altra è opportuno verificare come si è estrinsecato nel concreto il controllo del datore di lavoro, nel rispetto della dignità e delle garanzie previste dalla normativa ed in particolare dallo statuto dei lavoratori.

Cass. 6047/2018 ha ritenuto legittimo il licenziamento di un lavoratore che durante il periodo di malattia si era esibito in un concerto, postando su facebook tale attività con palese violazione dei doveri di buona fede e correttezza nello svolgimento del rapporto contrattuale.

Già in precedenza il Supremo Collegio aveva attribuito rilevanza giuslavoristica dell'utilizzo, anche extralavorativo, dei social network legittimando il potere di controllo del datore di lavoro anche con mezzi occulti finalizzati a realizzare l'occasione per verificare la condotta illecita del dipendente. Nella fattispecie il lavoratore si era allontanato dal posto di lavoro lasciando incustodita l'apparecchiatura aziendale che nel frattempo si era bloccata per conversare via internet tramite dispositivo mobile.

In questa ipotesi l'ingerenza del datore di lavoro, che ha provato l'illecito tramite creazione di account facebook, non è stata lesiva della riservatezza, della libertà e della dignità del lavoratore in quanto il controllo difensivo era destinato a riscontare e sanzionare un comportamento idoneo a ledere il patrimonio aziendale, sotto il profilo del regolare funzionamento e della sicurezza degli impianti; tale situazione sfugge, secondo gli ermellini, al raggio di azione dell'art. 4 della legge 20 maggio 1970, n. 300 e quindi non era necessaria alcuna forma di garanzia preventiva.

È stato dunque considerato legittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente e l'impresa datrice di lavoro non ha violato il principio di buona fede e correttezza nel rapporto contrattuale non avendo posto in essere una condotta né invasiva né induttiva dell'illecito bensì meramente accertativa (Corte di Cassazione del 27 maggio 2015 n.10955).

La rilevanza giuslavoristica dell'utilizzo dei social network da parte del lavoratore è stata in altre occasioni affermata in merito alla utilizzabilità, ai fini dell'esercizio del potere disciplinare del datore lavoro, di informazioni rese dal dipendete sulla piazza virtuale rappresentata appunto dai social network.

Sul punto il Supremo Collegio ha evidenziato che esistono condotte concernenti la vita privata del lavoratore che possono in concreto risultare idonee a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario che connota il rapporto di subordinazione, nel senso che mostrano di riflettersi sulla funzionalità del rapporto compromettendo le aspettative di un futuro affidabile adempimento dell'obbligazione lavorativa (Cass. n.1519/1993). Il rapporto fiduciario non può essere dunque leso da condotte che per loro natura mettano in dubbio la corretta esecuzione del rapporto contrattuale ad opera del dipendente.

Spostando invece l'attenzione anche sul bene giuridico che può essere compromesso da un atteggiamento contrario ai valori dell'impresa datrice del rapporto di lavoro, la Corte di Cassazione ha rilevato che il dipendente deve tenere un comportamento extralavorativo che sia tale da non ledere né gli interessi morali e patrimoniali del datore di lavoro né la fiducia che in diversa misura e in diversa forma, lega le parti del rapporto di durata (Cassazione 9 marzo 2016, n. 4633).

Le esternazioni del dipendente tramite social network, specie se dal profilo personale emerge la posizione lavorativa, possono essere in contrasto con i principi ed i valori sui quali si fonda dell'impresa datoriale con riflessi rilevanti sulla brand reputation.

Si rende dunque necessaria la definizione di vere e proprie policy social media che il dipendente sottoscrive e che hanno la funzione di regolamentare l'utilizzo dei social sotto il profilo disciplinare ponendosi inoltre come vere e proprie regole di compliance aziendale.
Dall'evoluzione giurisprudenziale sul tema emerge con chiarezza che per risolvere il conflitto è necessario in concreto verificare le modalità di esercizio del potere di controllo del datore di lavoro che non devono mai ledere la dignità e la libertà del lavoratore. La condotta social extralavorativa del dipendente assume rilevanza se ha dei riflessi negativi sul rapporto fiduciario e sulla reputazione aziendale, quest'ultima considerata come bene giuridico degno di tutela.

È possibile licenziare su whatsapp?

Apparirà certamente particolare e poco rassicurante dal punto di vista del dipendente, ma le nuove tecnologie permettono di raggiungere il medesimo scopo delle tradizionali forme di comunicazione, garantendo di contro al datore di lavoro una maggiore speditezza ed efficacia di mezzi.

In particolare, per ciò che concerne la possibilità di licenziare il dipendente tramite whatsapp, la giurisprudenza conferma l'ammissibilità dello strumento come mezzo idoneo al raggiungimento dello scopo in quanto si rispettano i requisiti di forma e contenuto dell'atto di recesso.

Il datore di lavoro infatti, come previsto dall'articolo 2 della legge numero 604/1966, nella versione riformata dalla legge Fornero n. 92/2012, è tenuto alla comunicazione del licenziamento mediante forma scritta specificando i motivi che hanno determinato il licenziamento stesso, pena la sua inefficacia.

Se entriamo nel dettaglio del meccanismo di funzionamento di whatsapp è infatti evidente in primis l'identificazione del mittente e del destinatario e dunque del datore e del lavoratore.

La prova della ricezione è certamente indiscutibile posto che le doppie spunte grigie tranquillizzano sul fatto che il messaggio è stato ricevuto e le spunte blu indicano la lettura dello stesso da parte del destinatario, oltretutto anche gli orari di invio e di ricezione sono ben visibili. Vero anche che il software di messaggistica istantanea, appunto whatsapp, prevede altresì la possibilità di impostare l'opzione mediante la quale non sono visibili le spunte blu e pertanto restano evidenti solo quelle grigie. In tal caso non si ha assoluta certezza della lettura del messaggio e dunque della conoscibilità del licenziamento da parte del lavoratore.

Nel momento in cui il messaggio arriva al destinatario vi è però una presunzione di conoscenza che certamente potrà divenire effettiva grazie ad un comportamento concludente del dipendente e dunque mediante l'inoltro dello stesso messaggio ad un collega o nella chat di gruppo del lavoro oppure attraverso la stessa impugnazione del licenziamento.
Se il lavoratore ha subito un illegittimo licenziamento può infatti impugnarlo entro il termine di sessanta giorni dalla ricezione della comunicazione del licenziamento stesso, ma si ricorda che lo stesso non deve considerarsi illegittimo per il mezzo informatico utilizzato.

A confermare quanto sopra si ricorda l'ordinanza del Trib. Di Catania del 27.06.2017 ove il giudice di merito ha ritenuto che il licenziamento mediante lo strumento di whatsapp assolve l'onere della forma scritta ed è ben visibile ed inequivoca la volontà di licenziare.
In conclusione, se lo scopo della forma scritta è quello di rendere edotto il dipendente dell'intervenuto licenziamento, anche i nuovi mezzi informatici come whatsapp lo raggiungono in modo efficace. Discutibile potrebbe essere, a parere degli scriventi, l'impatto generato nella sfera del dipendente a causa della non canonicità del mezzo utilizzato ed i rischi connessi alla mancata effettiva conoscibilità della comunicazione.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©