Malattia professionale, il riconoscimento della causa di servizio rileva nel giudizio di responsabilità del datore di lavoro
Le circostanze di fatto accertate al fine del riconoscimento della causa di servizio non possono essere ignorate dal giudice
L'istituto dell'equo indennizzo comporta a carico del datore di lavoro un'obbligazione pecuniaria in favore del lavoratore, in conseguenza di una infermità dipendente dalla prestazione lavorativa, che prescinde da eventuali inadempimenti ad esso imputabili ex articolo 2087 del codice civile. Tuttavia, data la vasta area di coincidenza del nesso causale della patologia con l'attività lavorativa, le circostanze di fatto accertate al fine del riconoscimento della causa di servizio non possono essere ignorate dal giudice di merito nel giudizio di responsabilità del datore di lavoro. Questo è quanto emerge nella sentenza della Corte d'appello di Potenza n. 281/2020.
La vicenda
La controversia prende le mosse nel 1998, quando una ex infermiera addetta alla sezione di neonatologia dell'Ospedale di Matera conveniva in giudizio l'ente ospedaliero e la Regione Basilicata chiedendone la condanna, ex articolo 2043 cod. civ., in solido al risarcimento di tutti i danni subiti, per aver contratto la sindrome da HIV. L'ex dipendente aveva scoperto la sua sieropositività nel 1994 in occasione di un controllo medico, mentre due anni più tardi aveva ottenuto dalla Commissione medica ospedaliera il riconoscimento della causa di servizio per l'ottenimento dell'equo indennizzo.
In giudizio l'attrice sosteneva di aver contratto il virus in ambito lavorativo, avendo svolto per circa 20 anni mansioni comportanti contatto con materiale ematico e altri liquidi biologici di pazienti, senza che il datore di lavoro avesse adottato alcuna precauzione organizzativa, né fornito idonei dispositivi di protezione individuali. In particolare, l'ex infermiera riportava un episodio, avvenuto nel 1989, quando aveva prestato assistenza ad una puerpera affetta da HIV subito dopo il parto di quest'ultima.
Il processo di primo grado si svolgeva molto lentamente e, dopo la CTU disposta nel 2007, tre anni più tardi il Tribunale adito – contrariamente alle risultanze dell'ausiliario - rigettava la domanda della donna, ritenendo non dimostrata l'esistenza di un nesso causale tra il danno-evento e la condotta negligente dell'amministrazione, ben potendo il contagio essere scaturito da fattori estranei alla prestazione lavorativa, come, ad esempio, a seguito di rapporti sessuali non protetti.
La decisione
La questione passava così dinanzi ai giudici d'appello i quali, dopo dieci anni dal verdetto di primo grado, ribaltano la decisione, liquidando il danno nell'ammontare stabilito dal CTU, e sottolineano gli errori commessi sia dall'attrice che dallo stesso Tribunale.
Ebbene, quanto all'attrice, secondo la Corte d'appello essa ha errato nell'incardinare la controversia sui binari del risarcimento del danno ex articolo 2043 cod. civ., venendo in rilievo, nel caso di specie, «l'inadempimento del c.d. debito di sicurezza gravante sul datore di lavoro ai sensi dell'articolo 2087 cod. civ.». Si è dinanzi, quindi, ad una specifica responsabilità per danni provocati dal rapporto di lavoro, che avrebbe dovuto far propendere l'attrice anche per il rito speciale delle controversie di lavoro e previdenza, di cui all'articolo 409 e ss cod. proc. civ.. Ad ogni modo, la domanda così riqualificata riguarda una responsabilità da inadempimento contrattuale, nell'ambito della quale spetta al lavoratore provare l'esistenza dell'obbligo di sicurezza, l'evento dannoso e il nesso causale, mentre al datore di lavoro compete solo provare di aver adottato tutte le misure idonee a scongiurare l'evento.
Quanto al giudice di primo grado, secondo il Collegio esso ha errato sulLa prova del nesso causale, in quanto l'ex infermiera ha dato prova di «una serie di mancanze del datore di lavoro nell'apprestare condizioni ambientali di sicurezza e nel dotare i lavoratori di dispositivi individuali di protezione». Difatti, considerando tutte le mansioni cui era addetta la ricorrente, assieme all'assenza di dispositivi di protezione – come desumibile dalla stessa CTU espeltata in primo grado – risultano sussistenti delle «vere e proprie condizioni di lavoro altamente patogene», integranti la causa scatenante la malattia da HIV contratta dalla lavoratrice. A ciò si aggiunge che, all'epoca del contagio, seppur le disposizioni normative che hanno reso obbligatorie le precauzioni atte a prevenire il contagio da HIV erano da poco entrate in vigore, le medesime precauzioni erano già conosciute e raccomandate da diverso tempo, ragion per cui l'ente ospedaliero avrebbe dovuto organizzarsi adeguatamente in tal senso.
A ciò si aggiunge, sottolinea la Corte d'appello, l'errata valutazione del primo giudice, che ha del tutto omesso di valutare il peso specifico rivestito dall'atto di riconoscimento della causa di servizio, ai fini dell'accertamento della derivazione causale della malattia dall'ambiente di lavoro, accollando alla lavoratrice altresì l'onere di provare l'omessa adozione da parte del datore di lavoro delle misure di sicurezza atte ad eliminare ogni pericolo di danno.