Neuroscienze e ordinamento italiano, una recente sentenza mantiene viva la querelle
Ad essere influenzate dall'apporto avanguardistico delle neuroscienze non sono solo le categorie dogmatiche del diritto penale ma altresì la parte speciale del codice penale, nelle sue singole fattispecie di reato
Su esempio degli Stati Uniti, negli ultimi vent'anni anche l'Italia ha iniziato ad introdurre nel processo penale tecniche di neuroscienza e ad avvalersi delle stesse, al fine di costruire un solido impianto probatorio. Una recentissima pronuncia, sull'argomento, della Corte di Cassazione, rappresenta un esempio eloquente della vitalità attuale delle questioni trattate.
La decisione - L'approdo delle neuroscienze nell'ordinamento penalistico italiano è relativamente recente, in quanto risale agli ultimi vent'anni. Nonostante la giovane e timida conoscenza tra le ricerche neuroscientifiche e la normativa penalistica, si sono già da tempo delineate due distinte risposte al fenomeno in itinere.
Una recente pronuncia della Suprema Corte ci permette di ripercorrere, in breve, i punti salienti e più controversi delle questioni sottese all'argomento. Con la pronuncia n. 28886 del 19 ottobre 2020, la Cassazione ha analizzato il contributo neuroscientifico non solo sotto l'aspetto dell'analisi della capacità di intendere e di volere, ma anche relativamente alla percepibilità dello stato di fragilità psichica della persona offesa, nel reato di cui all'art. 643 c.p., da parte del soggetto agente.
La valutazione in concreto, anche mediante l'ausilio di test specifici, è infatti utile per delineare la possibilità dell'imputato – all'epoca dei fatti – di avvedersi della situazione in cui versava l'infermo.
In secondo luogo, tali ricerche servono a ricostruire l'accadimento e la possibilità che si possa sostenere o meno la sussistenza della circonvenzione di soggetti incapaci.
Nella vicenda di cui alla sentenza in questione, secondo il perito la consapevolezza in capo all'imputato, della condizione in cui versava la vittima (affetta dalla sindrome c.d. di Crouzon), era facilmente ipotizzabile, in quanto quel tipo di disturbo appariva facilmente percepibile da coloro che avessero instaurato con la stessa un rapporto non occasionale, nonostante la sua capacità di badare a sé nelle primarie esigenze quotidiane.
Pertanto, l'indagine specialistica, non solo fornisce un apporto estremamente utile al processo, ma finisce per risultare addirittura indispensabile, al fine di un quadro probatorio completo.
Prima di analizzare più nel dettaglio l'intreccio fra neuroscienze e delitto di circonvenzione di incapace, è di dovere formulare brevi precisazioni sul significato e sul ruolo della prima la quale, involgendo ambiti disparati e diversi fra loro, potrebbe talvolta apparire nebulosa e non facilmente decifrabile.
Le questioni - Se si vuol fare riferimento alle neuroscienze in senso a-tecnico, ci si può senz'altro riferire a Lombroso, medico e giurista che, nell'800, studiò la possibilità di comprendere gli aspetti criminosi di un soggetto in base alle sue peculiarità fisiche. Secondo questo indirizzo di ricerca, in seguito criticato e superato poichè considerato foriero di concezioni vicine al razzismo, la fisionomia rappresentava un indice eloquente di una personalità potenzialmente criminale o meno.
In seguito al pensiero atavico lombrosiano, lo studio del cervello ha conquistato uno spazio rilevante, prendendo avvio negli Stati Uniti e diffondendosi gradualmente anche in Europa.Il termine neuroscienze, nel suo significato tecnico, indica lo studio del cervello e del suo funzionamento partendo dalle sue componenti più piccole: sinapsi e neuroni.
Tale studio, nelle neuroscienze comportamentali, diviene la base analitica degli agiti umani, i quali, dunque, ricevono una spiegazione incentrata, in modo specifico, sulle caratteristiche di ciascun essere umano.
Come viene ben spiegato in un noto contributo, questo meccanismo di ricerca «consente di apprezzare con maggiore [...] "impensabile precisione", il comportamento delle reti neuronali nel cervello dell'essere umano, attraverso le tecnologie di brain imaging».
Se il comportamento dell'uomo dipende dalle connessioni cerebrali e/o eventuali disfunzioni dei meccanismi neuronali – come taluni sostengono – bisognerebbe dare atto che la capacità di agire, l'elemento soggettivo della volontarietà, il libero arbitrio, siano concetti non più attuali, alla luce della premessa suddetta.
Le storiche categorie dogmatiche del diritto penale comporterebbero una punizione – quella usuale basata sull'idea del c.d. doppio binario – non più percorribile, in quanto profondamente ingiusta; come può, infatti, infliggersi, una sanzione ad un soggetto che non ha agito con determinazione e consapevolezza, bensì a causa di un'azione, determinata da funzionamenti cerebrali e psicologici, non dipendente da lui?
Potrebbe essergli comunque addebitato di non aver saputo reagire a determinati impulsi, attraverso la propria moralità e il senso di responsabilità?
Sovviene il pensiero del filosofo Locke, ovverosia l'interesse preminente dello Stato di rendere i propri consociati, soggetti "perfettamente razionali", prima di immetterli nella società, obiettivo non immediato e di non semplice attuazione.
Il filone di pensiero che si approccia alla tematica in modo più radicale è stato definito "programma forte". I suoi sostenitori considerano causalistico di ogni azione umana, il solo elemento psico-biologico, relegando il libero arbitrio a mera illusione.
Pertanto, secondo tale approccio, bisognerebbe ripensare alle categorie storiche del diritto penale, trasformando altresì la risposta normativa, da sanzionatoria a preventiva e di controllo.
Accanto all'approccio più radicale, emerge il programma c.d. debole o moderato, il quale critica fortemente l'idea di una spiegazione unicausale del crimine, in quanto essa si accosterebbe difficilmente alla complessità dell'essere umano. Pensare di dover sradicare totalmente gli artt. 88 e 89 c.p., eliminando il concetto di infermità, non appare per molti praticabile.
L'accertamento di un eventuale vizio parziale o totale di mente necessita di una valutazione ad ampio raggio; una giurista e studiosa dell'argomento in questione, si è espressa sulla multifattorialità dei comportamenti umani così come degli illeciti, sostenendo che «il fatto che il DNA dell'individuo presenti uno o più polimorfismi genetici che predispongono all'aggressività nulla dice, insomma, sulla propensione all'antisocialità di un individuo, se nel contempo non se ne studia l'interazione con l'ambiente».
A parere di chi scrive, l'errore posto in essere dai sostenitori della teoria radicale che propone una "rivoluzione" dei cardini penalistici, consiste nel sovrapporre in modo astrattamente perfetto, la scienza medica con la scienza giuridica e – egualmente – il compito del perito e quello dell'organo giudicante.
Invero, la prima delle scienze in questione è da sempre definita "hard science" in contrapposizione, alla seconda – quella umanistica e giuridica – definita "soft science".
Si tratta, da un lato, di una scienza esatta, quanto più possibile foriera di un'unica risposta ai quesiti ad essa sottoposti; dall'altro, di una scienza o disciplina maggiormente aperta a più strade percorribili, quasi mai detentrice di una verità assoluta.
L'oggetto delle due scienze, al pari del ruolo ricoperto dalle figure rappresentanti di esse, appaiono dunque profondamente distinti; a titolo di esempio, la disciplina penalistica del libero arbitrio – e quindi della suitas – non potrebbe riflettere esattamente quella scientifica, così come neppure le finalità delle stesse possono in alcun modo combaciare.
Per la scienza giuridica, l'essere umano è sì mente e cervello, ma anche moralità, senso di responsabilità, capacità di discernere ciò che è giusto da ciò che non lo è, non potendo, pertanto, addebitare ogni sua azione, solo ad impulsi irrefrenabili causati da connessioni neuronali.Ciò che le neuroscienze si propongono non è la creazione di un nuovo edificio penalistico, bensì una integrazione, specie nella fase peritale di analisi e valutazione del soggetto, degli strumenti e delle tecniche, al fine di una migliore composizione del procedimento.
Il perito e il giudice fanno rispettivamente capo al giudizio diagnostico ed al giudizio normativo, i quali costituiscono due differenti fasi.
Il primo si incentra sulla diagnosi della patologia, della psicosi o della mera vulnerabilità del soggetto su cui si indaga; esso viene elaborato dall'esperto, che spieghi l'incidenza del morbo sulla capacità di intendere e di volere, nel caso concreto.
Il secondo è quello che compete al giudice, non come mero esecutore dei risultati scientifici, bensì come gatekeeper della scientificità dei mezzi di prova. Esso è basato sulla valutazione dell'incidenza della patologia sul comportamento contra ius.Tale precisazione non è posta su un piano meramente astratto, quantomeno da quando – nel 2005– le Sezioni Unite, con una pronuncia storica, hanno sostenuto l'idoneità dei disturbi della personalità – non rientranti in conclamate patologie cliniche - ad escludere o a scemare l'imputabilità al momento del fatto di reato.
Pertanto, la reale incidenza di un disturbo sul comportamento necessita di una valutazione alla stregua dei riferimenti codicistici, che non possono essere sostituiti dalle risultanze scientifiche.
Il metodo delle inferenze consente di connettere i due diversi emisferi della scienza e della norma, in base al «task – at hand - approach», ovverosia un giudizio individualizzante che operi non in base a schematiche astratte, ma attraverso una valutazione minuziosa e concreta della risultanza probatoria.
L'opera del giudicante deve avvenire osservando «il cervello non come una macchina, considerando la mente come una entità che risponde a regole rigidamente determinate, dal momento che esiste un intreccio irripetibile tra una storia naturale durata milioni di anni ed esperienze individuali».
L'art. 643 c.p. - Senza dubbio, ad essere influenzate dall'apporto avanguardistico delle neuroscienze, non sono solo le categorie dogmatiche del diritto penale, ma altresì la parte speciale del codice penale, nelle sue singole fattispecie di reato.
Due sentenze indicative a tal proposito – datate al 2017 e al 2018 – propongono un'analisi ed una prospettiva di indagine sul reato di circonvenzione di incapace, la quale si annuncia essere tutta in divenire, anche per i prossimi anni.
Dal 1930, infatti, la portata della norma ha assunto un raggio di azione più ampio rispetto al passato, corroborato nella sua evoluzione anche dalla giurisprudenza di legittimità successiva. Invero, senza porre l'attenzione sul significato dell'art. 643 c.p., sul quale non sussistono dubbi, la fattispecie in esame presume la presenza di un soggetto non necessariamente incapace di intendere e di volere, quanto, alternativamente, in una situazione di «minorata capacità psichica, con compromissione del potere di critica e di indebolimento di quello volitivo, tale da essere soggetto all'altrui opera di suggestione e pressione». É qui che la psicologia, insieme alle neuroscienze cognitive, interviene per disegnare la sostanza ed i limiti del delitto in questione; l'incapacità, intesa nel suo senso ampio comprensivo di una accentuata vulnerabilità e di una fragilità emotiva della vittima, è necessaria per la sussistenza del reato. Da un lato, infatti, qualora venisse a mancare l'incapacità del soggetto indotto, ci si troverebbe dinanzi al delitto di truffa nei confronti di un soggetto perfettamente capace; dall'altro, qualora il soggetto agente non ottenesse il risultato sperato mediante l'approfittarsi della condizione di minorità altrui e utilizzasse, al contrario, mezzi di coazione o di costringimento, sussisterebbe la fattispecie riconducibile all'estorsione.
Lo stato di infermità – di qualunque tipo – necessita quindi di accertamento, in una prima fase da parte del perito, ed in una seconda fase, relativamente alla reale incidenza della stessa sull'azione, da parte del giudice. Di non facile applicazione appare il ruolo delle neuroscienze, le quali fungono da supporto di rapido utilizzo quando si tratta di indagare su una patologia conclamata, ma, viceversa, comportano un duro ed incerto lavoro di analisi, quando si cerca di dimostrare disturbi della sfera emotiva e psicologica, che non possono essere declinate in malattie ma, al contempo, non possono essere tralasciate, poiché, oltre che su un piano diagnostico, anche su un piano prettamente giuridico è lo stesso capo di imputazione che chiede di tenerne conto.