Professione e Mercato

Niente riduzione della sanzione all'avvocato che non si mostra pentito

Per il CNF è esclusa la riduzione della sanzione disciplinare per l'incolpato che non mostri alcuna consapevolezza del proprio errore

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di Marina Crisafi

L'avvocato non si mostra pentito per il comportamento ritenuto deontologicamente scorretto? Nessuna riduzione della sanzione. È questo il succo della sentenza n. 192/2020 (pubblicata il 19 aprile 2021 sul sito del codice deontologico) con cui il Consiglio Nazionale Forense ha rigettato il ricorso di una legale sanzionata con la censura per aver esercitato come avvocato pur essendo stata sospesa.

I fatti
I fatti scaturivano da una segnalazione del tribunale al consiglio dell'ordine degli avvocati di Milano che evidenziava come l'incolpata risultava difensore di una donna in un giudizio pendente innanzi alla sezione lavoro, nonostante fosse stata sospesa cautelarmente dall'esercizio della professione forense.
Veniva avviato quindi procedimento disciplinare che culminava con il riconoscimento della responsabilità dell'incolpata - per aver posto in essere un comportamento non colposo in violazione della legge penale (articolo 348 c.p.) e dell'articolo 36, 1° comma, del codice deontologico - e la sanzione della censura.

La difesa
La professionista invocava, quindi, l'intervento del CNF, ritenendo insussistenti i presupposti per l'applicabilità della misura ed evidenziando, tra l'altro, errata valutazione ed illogicità della motivazione nella parte in cui la decisione impugnata aveva ritenuto corrispondente all'esercizio dell'attività professionale la mera consegna in udienza del fascicolo di parte al collega unico firmatario degli atti di causa.
L'avvocatessa infatti faceva presente che non appena ricevuta notifica del provvedimento amministrativo di sospensione cautelare dall'esercizio della professione, la difesa della sua assistita era stata " tempestivamente " assunta da un altro avvocato e che la sua presenza in udienza era solo per fornire chiarimenti sulla complessa controversia che il professionista incaricato non conosceva ancora a fondo.

La decisione
Per il CNF però le tesi della ricorrente non reggono e sono smentite dallo stesso verbale dell'udienza in cui la donna risulta inequivocabilmente aver esercitato attività difensiva, seppur congiuntamente al collega.
Trova quindi applicazione il principio già affermato dal Consiglio, secondo cui "pone in essere un comportamento deontologicamente rilevante l'avvocato che, quand'anche in asserita buona fede, svolge attività professionale durante il periodo di sospensione". E a tal fine è idonea a configurare la condotta illecita anche la sola accettazione del mandato professionale, "trattandosi di comportamenti espressivi, di per sé soli, dell'esercizio di attività di avvocato giacchè, durante il periodo di sospensione dall'esercizio della professione, l'avvocato deve astenersi dal compiere non solo gli atti strettamente giudiziali ma anche tutti quelli comunque rientranti nella attività professionale forense" (cfr. CNF n. 133/2018).
Tale principio estende quindi l'ambito di operatività del divieto anche ad atti che non siano diretta espressione dell'esercizio di attività riservata all'esercente la professione forense e ciò evidenzia, per il CNF, la gravità della condotta della ricorrente, la quale non solo ha conservato il mandato difensivo dopo l'esecuzione della misura cautelare, ma ne ha anche dato concreta attuazione partecipando ad attività riservate, come l'udienza innanzi al Tribunale del Lavoro di Milano.

Sanzione adeguata
Quanto alla sanzione, per il Consiglio, non può che ritenersi adeguata quella della censura, posto che in alcun modo l'avvocato ha dato prova di "resipiscenza", conservando il mandato difensivo con il "pretesto" di un'eventuale modifica del provvedimento cautelare, ed esercitando appieno lo ius postulandi che le era inibito dal provvedimento cautelare.
Senza contare, conclude il CNF rigettando il ricorso, che "la violazione prevista dall'art. 36 comma 1 del Codice Deontologico integra astrattamente la fattispecie di reato di cui all'art. 348 c.p., la cui portata in termini di gravità non è attenuata dal fatto che non si abbia avuto certezza della iscrizione di notizia di reato a carico della ricorrente".

La massima
"L'ammissione della propria responsabilità da parte dell'incolpato può essere valorizzata nell'ambito del complessivo giudizio relativo alla sua personalità ai fini della determinazione della giusta sanzione in senso più mite; attenuazione che invece deve escludersi ove, per converso, l'incolpato non mostri alcuna resipiscenza".

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