Lavoro

Obbligo vaccinale, l'intervento del Garante non placa il dibattito

Dopo l'intervento del Garante e in vista dell'intensificazione della campagna vaccinale è opportuno un intervento da parte del legislatore

di Laura Marretta, Alice Posfortunato


In questi ultimi mesi molto si è discusso, anche tra addetti ai lavori in ambito giuridico, sulla possibilità di rendere obbligatorio il Vaccino contro il Covid 19 e sulle possibili conseguenze derivanti da questa ipotesi, arrivando a conclusioni non univoche.

Sul tema risulta di fondamentale rilevanza la corretta individuazione del perimetro del trattamento concesso al titolare sul dato relativo alla vaccinazione del dipendente, tanto che la nostra Autorità Garante, inserendosi nella discussione ed al fine di "fornire indicazioni utili ad imprese … affinché possano applicare correttamente la disciplina sulla protezione dei dati personali nel contesto emergenziale … al fine di prevenire … trattamenti illeciti … ed evitare … costi di gestione o possibili effetti discriminatori" ha chiarito in questi giorni, tramite FAQ, che:


a) Il datore di lavoro non può chiedere ai propri dipendenti di fornire informazioni sul proprio stato vaccinale o copia di documenti che comprovino l‘avvenuta vaccinazione anti Covid-19;

b) Il datore di lavoro non può considerare lecito il trattamento dei dati relativi alla vaccinazione sulla base del consenso dei dipendenti posto che in un'ipotesi come quella di specie il consenso non costituisce una valida condizione di liceità in ragione dello squilibrio del rapporto tra titolare e interessato nel contesto lavorativo;

c) Il medico competente non può comunicare al datore di lavoro i nominativi dei dipendenti vaccinati;

d) Il datore di lavoro può acquisire i soli giudizi di idoneità alla mansione specifica e le eventuali prescrizioni e/o limitazioni in essi riportati;

e) Solo il medico competente può trattare i dati personali relativi alla vaccinazione dei dipendenti ed eventualmente tenerne conto in sede di valutazione dell'idoneità alla mansione specifica, nei limiti della propria funzione.


Preme, in questo beve articolo, mettere in luce quanto evidenziato sub lettera b) relativo al fatto che, nella fattispecie sopra riportata, il consenso, che potrebbe rilasciare il lavoratore per il trattamento del dato in relazione all'aver eseguito o meno il vaccino, non viene considerato una valida condizione di liceità a causa del rapporto di "dipendenza" del dipendente nei confronti del datore di lavoro.

Il lavoratore, infatti, non potrebbe prestare un consenso libero, non condizionato e revocabile a fronte dello squilibrio insito nel rapporto tra titolare ed interessato nel contesto lavorativo; in questo senso si ricorda come sia "opportuno che il consenso non costituisca un valido fondamento giuridico per il trattamento dei dati personali in un caso specifico, qualora esista un evidente squilibrio tra l'interessato e il titolare del trattamento" (considerando 43 GDPR).

Questa posizione s'inserisce in modo conforme e costante con quanto già evidenziato sia della nostra Autorità Italiana che da WP 29.

Le valutazioni del Garante, peraltro perfettamente in linea – come detto – sia con il dettato normativo sia con le precedenti considerazioni in ordine ai trattamenti di dati praticabili nell'ambito del rapporto di lavoro , pongono un punto fermo nel vivace dibattito in corso tra giuslavoristi.

Le posizioni sono note e possono essere così sommariamente riassunte: da un lato vi sono coloro che ritengono, in applicazione dei principi di cui agli artt. 2087 c.c. e 279 D.lgs. 81/2008, che vi sia un dovere morale (o, per qualcuno, un obbligo contrattuale) alla vaccinazione per la ripresa dell'attività aziendale, con onere del datore di lavoro di procurare il vaccino e onere del lavoratore di farselo somministrare, pena conseguenze pregiudizievoli per il rapporto; d'altro vi sono invece coloro che, in virtù delle previsioni di cui all'art. 32 Cost., escludono la configurazione di un obbligo vaccinale (anche latamente inteso) in assenza di una specifica disposizione normativa, e invitano alla cautela nell'adozione di decisioni che incidono sul rapporto.

Molti commentatori, tuttavia, a prescindere dalla posizione assunta, riportavano che vi fosse un obbligo del lavoratore di comunicare il proprio stato vaccinale, in applicazione dell'obbligo di collaborazione al mantenimento della sicurezza sul luogo di lavoro di cui all'art. 20 D.lgs 81/2008.

Orbene, la posizione del Garante non potrà lasciare adito a dubbi: il lavoratore non deve comunicare il proprio stato vaccinale al datore di lavoro (e, se lo facesse, -vien da dire- l'informazione ricevuta non potrebbe essere utilizzata per assumere decisioni sulla gestione del rapporto, non essendo il consenso espresso in modo libero) ma solo al medico competente ove quest'ultimo lo richieda.

Si potrebbe, invero, sostenere che – ai fini dell'adozione di provvedimenti di qualsiasi natura nei confronti del lavoratore (dallo smart working "forzato" fino al licenziamento per sopravvenuta inidoneità alla mansione) - sia sufficiente attendere il giudizio di idoneità, presupponendo che da esso si possa riuscire a comprendere se il lavoratore è vaccinato o meno. Allo stato, però, sembra che ci siano almeno due argomenti ostativi rispetto ad una simile aspettativa: il primo che, secondo le parole del Garante, il medico non può esplicitare le ragioni della eventuale inidoneità o delle prescrizioni previste (altrimenti si configurerebbe la situazione sopra richiamata sub lettera c) ); il secondo che non vi è alcun automatismo tra mancato vaccino (per ragioni diverse da quelle mediche) e giudizio di inidoneità (anche temporanea o parziale) alla mansione, come peraltro confermato dalla più recente giurisprudenza in tema di vaccino antiinfluenzale.

In vista dell'intensificazione della campagna vaccinale, a parere delle scriventi, sarebbe opportuno un intervento da parte del legislatore.

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