Omesso versamento Iva, non punibile il contribuente che ha fatto tutto il possibile per assolvere il debito
In caso di omesso versamento Iva, non è punibile l'imprenditore che dimostra di aver fronteggiato la crisi economica che ha investito la sua azienda, a lui non imputabile, ponendo in essere tutte le azioni possibili, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare le somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza però riuscirvi per case indipendenti dalla sua volontà. Questo è quanto afferma il Tribunale di Firenze con la sentenza 4/2018.
Il caso - All'origine della vicenda giudiziaria c'è la storia di una società cooperativa operante da decenni nel settore metalmeccanico e, in particolare, nella produzione di serramenti e macchine utensili. A seguito della crisi dell'edilizia, settore connesso con quello di riferimento della società, si era creato uno squilibrio finanziario, a fronte dei mancati pagamenti di molti clienti e della diminuzione degli affidamenti bancari, che aveva portato la società a chiedere per ben due volte la rateizzazione dei versamenti Iva per l'anno 2014 e a rilasciare una fideiussione nei confronti del principale fornitore dell'azienda, salvaguardando comunque i livelli occupazionali e le retribuzioni. Alcune delle rate, tuttavia, non venivano pagate, sicché il legale rappresentante della società veniva tratto a giudizio per il reato di omesso versamento Iva, di cui all'articolo 10-ter del Dgs 74/2000.
La decisione - Dopo la ricostruzione dei fatti e una attenta analisi della vicenda, il Tribunale assolve l'imputato con la formula “il fatto non costituisce reato”, ritenendo applicabile, come chiesto dalla difesa, la causa di non punibilità della forza maggiore, di cui all'articolo 45 del codice penale. Ebbene, il giudice osserva che al fine di valutare l'applicabilità dell'esimente nel caso di assenza di liquidità dell'impresa, «è necessario verificare che si tratti di un fatto imprevisto ed imprevedibile e che il soggetto attivo abbia fatto quanto in suo potere per uniformarsi alla legge». Ciò significa che per poter qualificare la crisi di liquidità in termini di forza maggiore è necessario «accertare la non imputabilità al contribuente della crisi economica che improvvisamente avrebbe investito l'azienda e la circostanza che detta crisi non potesse essere adeguatamente fronteggiata tramite il ricorso ad idonee misure da valutarsi in concreto». In particolare, quanto alla seconda condizione, ovvero agli sforzi del contribuente per resistere alla crisi, devono vagliarsi tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, come la dismissione del proprio patrimonio o la richiesta di mutui, che siano dirette a consentirgli di acquisire quelle somme «necessarie ad onorare la propria obbligazione tributaria nel termine fissato», senza riuscirvi, nonostante gli sforzi, per motivi a lui non imputabili.
Nel caso di specie, afferma il Tribunale, appare provato che la crisi di liquidità della società, conseguente alla crisi del connesso settore dell'edilizia, abbia reso inagibile la condotta doverosa dell'imputato rispetto al debito erariale: i tentativi di reperire finanziamenti bancari, la fideiussione rilasciata al principale fornitore della società affinché non venissero interrotte le forniture e la società potesse continuare l'attività produttiva, nonché la stessa rateizzazione del debito dimostrano «la volontà di onorare il debito compatibilmente con le risorse economiche disponibili».
Tribunale di Firenze - Sezione I Penale – Sentenza 30 gennaio 2018 n. 4