Lavoro

Patto di non concorrenza, necessaria una valutazione "prospettica" della posizione del lavoratore

Corte di Cassazione, Sezione L - Civile, Ordinanza 1 settembre 2021, n. 23723

di Maria Clelia Chinappi*

Merita una riflessione la sentenza della Corte di Cassazione n. 23723/21 che, in data 1 settembre 2021, nell'accogliere il ricorso del lavoratore, ha cassato la decisione della corte di appello di Bologna la quale aveva ritenuto legittimo il recesso del datore di lavoro dal patto di non concorrenza sottoscritto con il dipendente.

La controversia sorge dalla richiesta del lavoratore di vedersi riconosciuto il compenso pattuito, al momento dell'assunzione, quale corrispettivo del patto di non concorrenza per i due anni successivi alla cessazione del rapporto. Tale pretesa era stata respinta dal datore di lavoro sull'assunto che lo stesso aveva esercitato il diritto di recesso da tale patto a lui riservato.

La Corte di Appello, discostandosi dall'orientamento degli ultimi anni della Suprema Corte, aveva reputato legittimo tale recesso, affermando che, poiché era intervenuto ben 6 anni prima della risoluzione del contratto di lavoro, detto recesso di fatto non aveva comportato per il lavoratore alcun sacrificio.

La Cassazione, invece, ha ritenuto di dover proseguire nella stessa strada tracciata dalle precedenti decisioni di legittimità chiarendo che la previsione della risoluzione del patto di non concorrenza rimessa all'arbitrio del datore di lavoro è nulla per contrasto a norme imperative.

Ricordiamo che la validità del patto di non concorrenza è riconosciuta qualora l'impedimento circa lo svolgimento dell'attività lavorativa sia contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo e sia adeguatamente remunerato (art. 2125 c.c.).

L'esigenza primaria del lavoratore non solo di avere cognizione sin dal momento della sua assunzione della durata del patto, ma di essere in grado di valutare le conseguenze che può comportare tale scelta di rimanere obbligato per un periodo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro implica la necessaria "stabilità" dell'accordo di non concorrenza che, quindi, non può essere soggetto ad una pattuizione unilaterale che ne consentirebbe il venir meno in ogni momento.

Con la decisione esaminata la Corte ha quindi nuovamente specificato che la "previsione della risoluzione del patto di non concorrenza rimessa all'arbitrio del datore concreta una clausola nulla per contrasto a norme imperative" e la circostanza che il recesso sia intervenuto in costanza di rapporto di lavoro "non rileva poiché i rispettivi obblighi si sono cristallizzati al momento della sottoscrizione del patto che impediva al lavoratore di progettare per questa parte il proprio futuro lavorativo e comprimeva la sua libertà"; tale compressione poteva avvenire solo dietro corrispettivo che finirebbe però per essere escluso qualora venisse concesso al datore di lavoro di liberarsi ex post dal suddetto vincolo, circostanza appunto illegittima.

Da sottolineare che la nullità della previsione che concede al datore di lavoro la possibilità di recedere unilateralmente dal patto di non concorrenza non determina la nullità dell'intero patto in conformità al principio di conservazione degli atti giuridici (art. 1419 c.c.).

Da quanto sopra quindi consegue la necessità che il datore di lavoro al momento dell'assunzione del dipendente prima di vincolarlo per il tempo successivo alla cessazione del contratto compia una attenta valutazione circa la rilevanza, anche prospettica, della posizione del lavoratore all'interno dell'azienda e delle conoscenze che lo stesso potrà acquisire nel corso del proprio rapporto lavorativo, nella consapevolezza che, successivamente alla sottoscrizione del patto di non concorrenza, non potrà recedere dallo stesso se non riconoscendo comunque al lavoratore il corrispettivo concordato. Ovviamente nulla osta che vi sia l'accordo comune di entrambe le parti a risolvere consensualmente detto patto.

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*A cura dell'avv. Maria Clelia Chinappi, Pirola Pennuto Zei & Associati

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