Civile

Pensione di reversibilità tagliabile non oltre i redditi

In alcuni casi la pensione viene ridotta più di quanto guadagnato in altro modo

di Fabio Venanzi

La pensione di reversibilità non può essere decurtata – in caso di cumulo con ulteriori redditi del beneficiario – di un importo che superi l’ammontare complessivo dei redditi aggiuntivi. Lo ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza 162/2022 depositata ieri.

Poiché è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’articolo 1, comma 41, della legge 335/1995, la stessa diventerà efficace con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della decisione, prevista per mercoledì 6 luglio 2022.

La riforma Dini del 1995 prevede un limite di cumulabilità dei redditi da pensione con il reddito proprio del beneficiario. In particolare, per redditi personali fino a tre volte il trattamento minimo, la quota di reversibilità spettante è pari al 60% dell’importo spettante al coniuge deceduto. Per redditi personali compresi tra 3 e 4 volte il trattamento minimo, la pensione spettante è pari al 45% dell’importo spettante al coniuge deceduto. Tale importo scende al 36% nel caso di redditi compresi tra 4 e 5 volte il trattamento minimo mentre, per importi superiori a 5 volte, l’importo di pensione spettante è pari al 30 per cento.

È prevista una clausola di salvaguardia grazie alla quale il trattamento derivante dal cumulo dei redditi con la pensione ai superstiti ridotta non può essere comunque inferiore a quello che spetterebbe allo stesso soggetto qualora il reddito risultasse pari al limite massimo delle fasce immediatamente precedenti quella nella quale il reddito posseduto si colloca. Nel caso in cui nel nucleo familiare siano presenti figli di minore età, studenti o inabili, i limiti di cumulabilità non si applicano. Pertanto, la pensione di reversibilità non subirà alcuna decurtazione.

Nel caso esaminato dalla Corte, la titolare di una pensione di reversibilità, per due annualità, aveva beneficiato di propri redditi aggiuntivi. Tuttavia, la decurtazione che si era vista applicare era superiore all’importo di questi redditi. Infatti, a fronte di un reddito personale (del 2015) di 30.106 euro, si era vista applicare una decurtazione di 43.174,43 euro. Pertanto, si può dedurre che l’importo pieno della pensione di reversibilità spettante, in assenza di redditi propri, sarebbe stata di 107.936,08 euro. A fronte di un guadagno personale di 30.106, il taglio subito sulla prestazione è stato superiore di 13mila euro. Analogo discorso per l'anno successivo ove, in presenza di un reddito personale di 30.646 euro, la decurtazione era stata di 47.638,02 euro.

La Corte ha rilevato l'irragionevolezza di una simile situazione che si pone in contrasto con la finalità solidaristica sottesa all'istituto della reversibilità, volta a valorizzare il legame familiare che univa, in vita, il titolare della pensione con chi, alla sua morte, ha beneficiato del trattamento di reversibilità. Quel legame familiare, anziché favorire il superstite, finisce paradossalmente per nuocergli, privandolo di una somma che travalica i propri redditi personali.

Pertanto, pur rilevando la correttezza dell'operato dell'Inps – nell'applicazione della norma che ha previsto il bilanciamento dei diversi interessi coinvolti - la Corte ha precisato che, in presenza di altri redditi, la pensione di reversibilità può essere decurtata solo fino a concorrenza dei redditi stessi. Gli effetti della sentenza dovrebbero produrre effetti, nell'ambito della prescrizione quinquennale decorrente dalla pubblicazione della sentenza sulla Gazzetta Ufficiale.

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