Perché proteggere i segreti aziendali nel rapporto di lavoro significa tutelare anche il valore del business
Durante lo svolgimento del rapporto di lavoro, i collaboratori dell'imprenditore possono facilmente venire a conoscenza di informazioni riservate strategiche: dall'elenco dei clienti e fornitori, alle politiche commerciali, ai metodi e processi di lavoro: in una parola il know-how dell'azienda.
Durante lo svolgimento del rapporto di lavoro, i collaboratori dell'imprenditore possono facilmente venire a conoscenza di informazioni riservate strategiche: dall'elenco dei clienti e fornitori, alle politiche commerciali, ai metodi e processi di lavoro: in una parola il know-how dell'azienda. Anche se la disponibilità di tutte queste informazioni da parte dei prestatori di lavoro è essenziale nel processo produttivo, indubbiamente il rischio di divulgazione non autorizzata è aumentato enormemente considerata la facilità di trasferibilità, anche di grandi volumi di dati, attraverso gli strumenti digitali.
Quindi, quali strumenti ha il datore di lavoro per proteggersi?
Il complesso patrimonio immateriale di conoscenze, di importanza vitale per l'azienda, è tutelato da molteplici norme di legge. Anzitutto l'art. 2105 cod. civ. che nel fissare l'obbligo di fedeltà del prestatore di lavoro, gli fa divieto di trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l'imprenditore, e di divulgare notizie attinenti all'organizzazione e ai metodi di produzione dell'impresa o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio. Il primo divieto (di concorrenza) presuppone che il rapporto di lavoro sia in corso, mentre il secondo divieto (di divulgazione di segreti aziendali) si ritiene sia applicabile anche dopo la sua conclusione. Altre norme di tutela sono contenute nel codice della proprietà industriale (art. 98 e 99) e nel codice penale (reati di divulgazione di segreto professionale e di rivelazione di segreti scientifici o industriali di cui agli art. 622 e 623).
La tutela offerta dal legislatore può essere efficacemente rafforzata attraverso la stipulazione di appositi patti e clausole contrattuali tra il datore di lavoro e i suoi collaboratori.
In primo luogo, il patto di non concorrenza, disciplinato dall'art. 2125 cod. civ. per i lavoratori subordinati e dall'art. 1751 bis cod. civ. per gli agenti, la cui funzione è quella di vietare al collaboratore di svolgere determinate attività in concorrenza con l'impresa per un periodo di tempo successivo alla conclusione del rapporto di lavoro.
Il patto è soggetto ad un limite temporale (cinque anni per i dirigenti; tre per gli altri lavoratori; due per gli agenti), deve essere redatto in forma scritta a pena di nullità e deve prevedere un corrispettivo a favore del lavoratore e un'indennità a favore dell'agente, entrambi commisurati al sacrificio imposto al collaboratore.
Profili essenziali che devono trovare adeguata regolamentazione nel patto sono quelli riguardanti la sua estensione territoriale ed il suo oggetto che richiedono un attento equilibrio tra le rispettive esigenze dell'imprenditore, di salvaguardarsi da illecita concorrenza, e del prestatore di lavoro di non vedersi privato della possibilità di trovare altra occupazione confacente alla sua professionalità.
Entro questi limiti, il patto di non concorrenza è uno strumento duttile ed efficace che consente di rafforzare la tutela dell'imprenditore sotto diversi profili: per es. attraverso la previsione di una congrua penale per il caso di violazione, può svolgere un effetto dissuasivo di atti concorrenziali dopo la conclusione del rapporto di lavoro ed agevolare la tutela in sede giudiziaria, consentendo una più agevole liquidazione del risarcimento danni e un più semplice ricorso alla tutela d'urgenza con provvedimenti inibitori delle condotte illecite dell'ex lavoratore.
Altro strumento utile di tutela sono gli accordi di riservatezza attraverso i quali può essere esattamente individuato l'ambito dei segreti aziendali che al lavoratore è fatto divieto di divulgare anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro (anche al di fuori di una vera e propria attività concorrenziale) e può essere pattuita una penale in caso di inadempimento.
Infine, devono essere ricordati gli accordi per vietare ai lavoratori attività di storno di altri dipendenti o di clienti dell'impresa, dopo la conclusione del rapporto lavorativo. Si tratta di ipotesi assai frequente ed insidiosa in cui un imprenditore concorrente assume un dipendente chiave dell'impresa e attraverso la sua intermediazione, favorita dalla conoscenza personale dei colleghi, induce altri dipendenti a seguirlo, con un effetto domino molto rischioso. Lo storno di dipendenti rientra tra gli atti di concorrenza sleale vietati in generale dall'art. 2598 cod. civ. in quanto contrario ai principî della correttezza professionale.
Tuttavia la sua repressione in via giudiziaria non è semplice soprattutto perché, secondo la giurisprudenza, è necessario dimostrare, anche attraverso presunzioni, l'intenzione dell'imprenditore di nuocere all'altrui impresa, essendo altrimenti tutelate la libertà di iniziativa economica di cui all'art. 41 Cost. e la concorrenza sul mercato del lavoro.
Di qui l'utilità di stipulare con il lavoratore appositi patti che, in azione combinata con gli altri accordi contrattuali sopra esaminati, possono aiutare a prevenire questa concorrenza illecita e agevolare le azioni giudiziali a tutela dell'imprenditore.
*a cura di Paolo Iasiello, partner di Toffoletto De Luca Tamajo