Predicato nobiliare nel cognome, gli altri discendenti “non hanno voce in capitolo”
La Cassazione, sentenza n. 8955 depositata oggi, ha accolto il ricorso di una antica famiglia calabrese che aveva chiesto di integrare nel cognome il nome del feudo di cui erano diventati marchesi nel 1703, per grazia di Filippo V di Borbone
La Cassazione torna a esprimersi sulla questione del diritto ad aggiungere il “predicato nobiliare” come parte integrante del cognome e lo fa sulla falsariga di quanto già chiarito dalla Corte costituzionale nel 1967. Nell’accogliere il ricorso di diversi componenti di una antica famiglia calabrese, la Prima Sezione civile, sentenza n. 8955 depositata oggi, precisa però alcuni passaggi, come per esempio quello per cui gli altri discendenti non hanno “voce in capitolo” nel giudizio promosso dal loro congiunto.
La Consulta (sentenza n. 101) aveva chiarito che i predicati dei titoli nobiliari possono essere cognomizzati solo se esistenti prima del 28 ottobre 1922 e già riconosciuti prima dell’entrata in vigore della Costituzione. Pertanto, prosegue la Cassazione, la Corte d’appello ha sbagliato a bocciare la richiesta della famiglia ritenendo che “i due presupposti, (esistenza del titolo con il predicato ed il suo riconoscimento), dovessero sussistere entrambi prima del 28 ottobre 1922”. Una simile decisione, prosegue la Corte, si rivela “non coerente con la XIV disposizione transitoria della Costituzione in collegamento con l’art. 6 cod. civ., come interpretate dalla Corte Costituzionale e dalla Cassazione”.
Nel caso specifico, infatti, come attestato anche dai documenti presentati dalla Presidenza del Consiglio (costituitasi in giudizio tramite l’Avvocatura di Stato, che aveva reso parere favorevole), era agevolmente desumibile la prova che “il titolo nobiliare de quo agitur, con il predicato collegato, era stato concesso nel 1703 da Filippo V e che esso era stato poi riconosciuto, per quanto qui interessa, in favore di … con il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 24 gennaio 1941”.
Con la decisione odierna, il Supremo Collegio “puntualizza” anche che il diritto al nome “è, per definizione, personalissimo, sicché il singolo può ben chiederne tutela, in via ordinaria, senza che debbano, coevamente, chiedere la medesima tutela i suoi congiunti, portatori del medesimo cognome”. “Come tale - prosegue -, il diritto alla cognomizzazione e la tutela di questo diritto sono riservati a tutti coloro che discendono dal comune avo, cui è stato riconosciuto il titolo nobiliare e ciascuno di loro può chiaramente agire singolarmente con un giudizio ordinario di cognizione”. Ciascuno di loro, dunque, “se lo desidera e se ve ne sono i presupposti”, previsti dalla XIV disposizione transitoria della Costituzione (“I titoli nobiliari non sono riconosciuti. I predicati di quelli esistenti prima del 28 ottobre 1922, valgono come parte del nome”, ndr), “è libero di agire in giudizio, come, d’altronde, altri, nelle medesime condizioni e con le stesse prerogative, sono liberi di rimanere inerti. Né, questi altri, possono avere alcuna “voce in capitolo” nel giudizio promosso dal loro congiunto”.
La Corte ha così riconosciuto il diritto dei ricorrenti ad aggiungere il predicato nobiliare “di …”, contestualmente ordinandosi ai competenti Ufficiali dello Stato civile di procedere alle relative annotazioni a margine dei rispettivi atti di nascita.
Va comunque ribadito, come già chiarito dai giudici di legittimità, che “i predicati di titoli nobiliari … fanno parte del nome, e, soltanto come parte (il cognome appunto) di esso valgono (sono cioè validi ed efficaci) nell’ordinamento”. Una incorporazione sancita in ossequio al principio di eguaglianza, per cui “il predicato medesimo, nell’ordinamento giuridico italiano, non può valere di più, in quanto tale, di quel che valgono le ordinarie parti del nome e, più specificamente, del cognome ordinario (art. 6, comma 2, c.c.)”. E ciò per non frustrare la “equilibrata ratio emergente dal combinato disposto dei commi 1 e 2 dell’art. 14 Cost.: da un lato, l’abolizione giuridica - mediante il non riconoscimento dei titoli nobiliari - di privilegi derivanti dalla nascita o dall’appartenenza a una determinata classe sociale; dall’altro, la riaffermazione del valore del nome come fondamentale diritto inerente alla identità della persona in quanto tale, con la conseguente assimilazione, quanto a valore giuridico, del predicato di titolo nobiliare cognomizzato al nome, e, quindi, di entrambi sul piano della tutela giurisdizionale”.