Processi troppo lunghi, l’estinzione per inattività non esclude l’indennizzo «Pinto»
L’indennizzo per l’irragionevole durata della causa non si può escludere per il solo fatto che il processo si sia concluso con una sentenza che ne ha pronunciato l’estinzione per inattività delle parti in lite. La decisione della Corte d’appello, competente per materia, deve necessariamente passare dall’accertamento di eventuali responsabilità della stessa parte sulle cause della lungaggine del giudizio. Lo afferma la Cassazione con l’ordinanza 26858/2019 del 22 ottobre scorso.
Alla Corte d’appello si era rivolto, nel luglio 2012, l’erede di una donna per ottenere la condanna del ministero della Giustizia a pagare l’indennizzo previsto dalla legge Pinto (89 del 2001) per l’eccessiva durata di una causa civile di convalida di un sequestro conservativo e di divisione ereditaria. Il giudizio si era concluso nel gennaio 2012 con una pronuncia di estinzione del processo per inattività delle parti.
Il giudice della “Pinto” aveva respinto il ricorso, ritenendo non provata la qualità di erede in capo al ricorrente. La Cassazione aveva poi annullato la decisione (affermando che tale qualità si poteva, invece, evincere dagli atti) e quindi rimesso le parti davanti alla Corte d’appello per un nuovo giudizio. Ma il giudice del rinvio aveva nuovamente respinto la domanda, affermando che l’eccessiva durata del processo civile presupposto era dipesa «in maniera determinante» dal comportamento inattivo delle parti, e dunque anche della dante causa del ricorrente.
Quest'ultimo si è quindi rivolto ancora una volta alla Cassazione, deducendo che l’inerzia delle parti in lite si poteva riferire, al più, al periodo dal 2010 al momento della pubblicazione della sentenza. In ogni caso non si era considerato - aggiungeva il ricorrente - che spettava ai giudici della causa presupposta il dovere di verificare se il contraddittorio si fosse regolarmente instaurato, e quindi il potere di adottare gli opportuni provvedimenti in caso di inattività dei contendenti.
Nell’accogliere il ricorso, la Cassazione rileva che solo nella sua prima fase la causa aveva avuto alcuni rinvii su richiesta delle parti, mentre per il periodo intercorso tra il 1991, anno dell’interruzione del processo per decesso di una delle parti, e il 2012 il giudice di merito si era limitato ad affermare genericamente che il giudizio non risultava correttamente riassunto nei confronti di tutti gli eredi, senza però «specificamente individuare la responsabilità» della dante causa del ricorrente.
Troppo poco, secondo i giudici, per negare l’indennizzo. Le parti dovranno quindi presentarsi per la terza volta davanti alla Corte d’appello, che sarà chiamata a valutare se la donna abbia contribuito ad allungare i tempi del giudizio presupposto.
Nella vicenda non è stato applicato l’articolo 2, comma 2-sexies, della legge 89/2001, introdotto nella “Pinto” dalla legge 208/2015, per il quale «si presume insussistente il pregiudizio da irragionevole durata del processo, salvo prova contraria», nel caso di estinzione del processo per inattività delle parti. La norma è infatti entrata in vigore il 1° gennaio 2016 e si applica solo alle «domande di equa riparazione proposte successivamente a tale data»: lo ha precisato la sentenza 26634/2019 della Cassazione, pubblicata il 18 ottobre scorso.