Lavoro

Sulla invocata risoluzione per mutuo consenso del rapporto di lavoro

Nota Tribunale di Udine, Civile, Sezione L, Sentenza del 27-05-2022

di Tommaso Targa e Enrico Vella*

A questa domanda, nonostante l'attuale disciplina delle dimissioni che ne imponga la forma telematica, ha dato risposta affermativa il Tribunale di Udine, con una decisione emessa il 27 maggio 2022.

I fatti

Nell'ambito di un rapporto di lavoro ormai logoro, una lavoratrice è rimasta assente ingiustificata per oltre sei mesi, dopo la fruizione di un periodo di ferie.

A richiesta di chiarimenti da parte dell'azienda, che ha dapprima contestato disciplinarmente l'assenza ingiustificata - senza tuttavia irrogare alcuna sanzione - e poi invitato la lavoratrice a dimettersi, quest'ultima ha risposto di non avere intenzione di farlo, pur avendo deciso di non rientrare al lavoro, essendo semmai il datore di lavoro, a suo dire, a doverla licenziare.

Preso atto di ciò, l'azienda ha comunicato al Centro per l'Impiego la cessazione del rapporto per dimissioni, e tale iniziativa è stata poi qualificata dalla lavoratrice (non senza una certa "faccia tosta") come un licenziamento, dalla stessa impugnato con ricorso ex legge Fornero.

Decidendo la controversia, previo accertamento dei fatti di cui sopra mediante interrogatorio della ricorrente ed audizione degli informatori, il Tribunale di Udine ha escluso che il rapporto di lavoro potesse ritenersi risolto per licenziamento e nemmeno per dimissioni, in assenza di qualsiasi atto formale di recesso da parte dei contraenti, quanto piuttosto per "la sintomatica manifestazione di una reciproca e convergente volontà … di non dare più seguito al contratto di lavoro, determinandone così la risoluzione per fatti concludenti". Di qui il rigetto delle domande di reintegrazione e indennizzo ex art. 18 St. Lav. formulate dalla lavoratrice.

L'ordinanza in commento ha esaminato con attenzione il problema della compatibilità dell'istituto della risoluzione per mutuo consenso - in passato frequentemente applicato dalla giurisprudenza - con la disciplina delle dimissioni telematiche introdotta dal Jobs Act.

E' giunta alla conclusione che l'attuale normativa, che impone al lavoratore di rassegnare le dimissioni con uno specifico formalismo, non esclude tuttavia che il rapporto di lavoro possa risolversi per fatti concludenti, laddove entrambe le parti del rapporto abbiano manifestato con il proprio comportamento il reciproco disinteresse a proseguirlo.

L'ordinanza ha rimarcato, quindi, che la necessità di rassegnare le dimissioni con modalità telematica è stata introdotta dal legislatore per arginare il fenomeno delle dimissioni in bianco, e per tutelare i lavoratori, impedendo ai medesimi di risolvere il rapporto di lavoro senza la necessaria ponderazione.

Ma queste esigenze non sussistono per definizione quando il comportamento concludente - proprio perché necessariamente prolungato nel tempo (essendo ciò richiesto dalla fattispecie del mutuo consenso) - non consente di avere dubbi sulla volontà delle parti che, al contrario, è stata palesata e ribadita dal ripetersi a lungo di una condotta di fatto. L'ordinanza ha anche evidenziato che la legge delega del Jobs Act (l. n. 183/2014 ) aveva delegato al governo di introdurre una disciplina ad hoc in materia di dimissioni "anche tenuto conto della necessità di assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente in tal senso della lavoratrice o del lavoratore".

Poiché il legislatore delegato, con il d.lgs. 151/2015 , non ha attuato la delega sotto questo profilo, avendo omesso di stabilire qualsiasi regola in materia di risoluzione per fatti concludenti, non può ritenersi che tale risoluzione sia preclusa dall'attuale normativa; al contrario, proprio perché non esiste una disciplina ad hoc, è tuttora possibile richiamare il principio generale ex art. 1372 cod. civ., secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di merito e di legittimità, formatasi ben prima dell'entrata in vigore del Jobs Act.

Infine, l'ordinanza ha sottolineato che - ad interpretare diversamente le disposizioni in materia di dimissioni telematiche - si finirebbe per raggiungere un risultato incompatibile con i principi costituzionali: da un lato, imponendo al un datore di lavoro di licenziare un dipendente anche se non vuole farlo, non avendo altra via per risolvere il rapporto di lavoro in presenza di una decisione presa di fatto dal dipendente (con conseguente violazione del principio di libertà imprenditoriale ex art. 41 cost.); dall'altro, "l'ingiusta sottrazione di risorse da destinarsi solo a vantaggio di quei lavoratori" che hanno perso il posto di lavoro per fatto a loro (realmente) non imputabile. L'ordinanza in commento ha messo a fuoco un problema che ha cercato ingegnosamente di risolvere richiamando i principi generali, pur evidenziando apertis verbis che la disciplina delle dimissioni telematiche contiene un vuoto normativo nella parte in cui - nonostante le indicazioni del legislatore delegato – ha omesso di regolamentare le dimissioni "di fatto".

Inoltre, senza tanti giri di parole, l'ordinanza ha altresì stigmatizzato la prassi a cui si assiste frequentemente: spesso i lavoratori, anziché dimettersi, "inducono il datore di lavoro a irrogare il licenziamento" restando assenti ingiustificati per diversi giorni e rendendosi irrintracciabili, onde percepire la Naspi pur avendo loro stessi preso l'iniziativa di interrompere il rapporto di lavoro e, in alcuni casi, in perfetta sintonia con il CCNL di settore che prevede proprio il licenziamento in caso di protratta assenza ingiustificata.

Il comportamento del lavoratore inerte costringe le aziende ad irrogare il licenziamento disciplinare e le obbliga a pagare il ticket di licenziamento e, nello stesso tempo, tentare di recuperare il corrispondente importo, quanto meno "per ragioni di principio", dal lavoratore in occasione della liquidazione delle spettanze di fine rapporto.

Si tratta di una prassi che il Tribunale di Udine aveva già in passato criticato con una precedente sentenza del 30 settembre 2020 : sentenza con cui aveva riconosciuto il diritto dell'azienda ad essere risarcita per il pagamento del contributo Naspi, versato in seguito a un licenziamento intimato per assenza ingiustificata, essendosi accertato che tale assenza era stata deliberatamente posta in essere dal dipendente al fine di percepire la Naspi.

Entrambe le decisioni del Tribunale di Udine evidenziano che la risoluzione per fatti concludenti del rapporto di lavoro, ed anche le dimissioni di fatto, sono tuttora istituti invocabili.

Può essere l'azienda a sostenere che il rapporto di lavoro è cessato per iniziativa del lavoratore, al quale pertanto non spetta la tutela conseguente al licenziamento, e nemmeno il versamento del contributo Naspi.

Oppure potrebbe essere invece l'Inps a negare il diritto a tale indennità a fronte di comportamenti "truffaldini". D'altro canto, le decisioni del Tribunale di Udine segnalano che - ancor più in considerazione dell'attuale disciplina formalistica delle dimissioni - l'accertamento della natura concludente di una condotta di fatto, ed anche dell'elemento intenzionale, richiede particolare attenzione e prova rigorosa.

Non a caso, entrambi i procedimenti che sono stati decisi dal Tribunale di Udine sono stati preceduti da approfondita istruttoria, non potendosi certo presumere che il lavoratore resti assente ingiustificato al solo fine di lucrare la Naspi sine titulo, né che l'azienda sia automaticamente esonerata dal versamento del ticket in ipotesi di licenziamento disciplinare motivato da assenza del dipendente.

*di Tommaso Targa e Enrico Vella, Trifiro' & Partners - Avvocati


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