Recenti sviluppi della finanza sostenibile (tra Roma, Bruxelles e Baku)
Unione Europea e resto del mondo viaggiano a velocità molto diverse nell’elaborazione dell’ impianto di regole atte a contrastare le indifferibili problematiche di sostenibilità, lo dimostrano i recenti sviluppi normativi in materia ESG - Il nodo dei PVS
Ripercorrendo le novità ESG (environmental, social and governance) più rilevanti dell’autunno che volge al termine, si possono individuare tre pietre miliari lungo l’accidentato sentiero degli sviluppi della finanza sostenibile e della sua regolamentazione. Trattandosi rispettivamente delle misure di recepimento di una Direttiva, di un Regolamento comunitario e di un accordo internazionale multilaterale (Conferenza delle Nazioni Unite), in una prospettiva olistica, tali importanti tappe possono essere rappresentate come tre cerchi concentrici,
(i) con una progressiva espansione di destinatari ed utilizzatori di tali provvedimenti e dei relativi impatti;
(ii) caratterizzate da un’estensione geografica del proprio àmbito di efficacia e
(iii) con un progressivo ampliamento, dalla dimensione microeconomica e contabile delle imprese coinvolte, alla portata, macroeconomica e globale, della nuova cosiddetta “finanza climatica”.
In particolare, le principali novità normative sono le seguenti:
- (i) il D. Lgs. n. 125 del 6 settembre 2024, entrato in vigore il 25 settembre scorso, che ha recepito la Direttiva n. 2022/2464/UE sulla rendicontazione societaria di sostenibilità, c.d. CSRD, ampliando la platea delle società italiane destinatarie della previgente disciplina sulla dichiarazione non finanziaria e richiedendo che i dati non finanziari delle imprese siano comunicati in base a determinati standard uniformi di rendicontazione (European Sustainable Reporting Standards - ESRS) e con lo stesso rigore tipico dei dati di bilancio. Tali informazioni sulla sostenibilità sono soggette a un obbligo di attestazione di conformità e devono essere pubblicate unitamente alla relativa relazione di conformità predisposta da un revisore legale o da una società di revisione contabile (redatta nei termini della limited assurance).
Per maggiori approfondimenti sulla CSRD e sulle imprese (quotate e non, ivi compresi i c.d. “enti di interesse pubblico”, tra cui banche e compagnie di assicurazione) destinatarie della stessa Direttiva, sia consentito rinviare al mio articolo dello scorso marzo in questa stessa rubrica.
Peraltro, sempre con riferimento alla CSRD, il 13 novembre scorso è stata anche pubblicata in Gazzetta ufficiale dell’UE la Comunicazione della Commissione europea recante i chiarimenti, sotto forma di risposte alle domande frequenti (FAQ), in merito all’interpretazione di talune disposizioni in materia di rendicontazione di sostenibilità (la Comunicazione è disponibile a questo link). - (ii) Il Regolamento, approvato dal Consiglio europeo e dal Parlamento lo scorso 19 novembre, sui Rating ESG, che fa seguito a una proposta della Commissione UE presentata il 13 giugno 2023, trattata in quest’altro mio articolo dello scorso anno.
- (iii) La 29esima Conferenza delle Parti sul Clima delle Nazioni Unite, tenutasi a Baku, in Azerbaijan, nei giorni tra l’11 e il 24 novembre scorsi (“COP29”).
Il Decreto Legislativo di recepimento della CSRD
Rispetto alla previgente Direttiva n. 2014/95/UE (c.d. Non-Financial Reporting Directive - NFRD), la CSRD non si limita soltanto ad estendere la platea dei soggetti obbligati (tra i quali costituiscono una rilevante novità le PMI e le società non comunitarie che siano però quotate su mercati regolamentati UE oppure abbiano filiali nel territorio dell’Unione e un fatturato superiore ai 150 milioni di euro), ma anche l’ambito di applicazione oggettivo delle informazioni di sostenibilità, in base al principio della doppia materialità. Secondo tale criterio, la rendicontazione non finanziaria deve indicare sia come i fattori di sostenibilità influenzano lo sviluppo, la performance aziendale e il posizionamento commerciale di una data impresa (prospettiva “outside-in”) sia come l’attività d’impresa impatta all’esterno, sulla società e sull’ambiente (prospettiva “inside-out”).
La rendicontazione di sostenibilità, che dovrà essere inclusa in un’apposita sezione della relazione sulla gestione predisposta dagli amministratori, dovrà contenere:
• la descrizione del business model e la strategia aziendale dell’impresa in relazione ai suoi obiettivi, rischi ed opportunità associati alle tematiche di sostenibilità, con l’illustrazione dei piani finanziari e di investimento atti a garantire che modello e strategia aziendali siano compatibili con (i) la transizione verso un’economia sostenibile, (ii) la limitazione del riscaldamento globale a 1,5°C in linea con l’Accordo di Parigi del 2015 e (iii) l’obiettivo del conseguimento della neutralità climatica entro il 2050;
• il ruolo dell’organo amministrativo, dell’alta dirigenza e delle funzioni di controllo in relazione alle questioni di sostenibilità, e loro competenze e capacità in materia;
• la descrizione delle politiche di sostenibilità implementate e di eventuali piani di incentivazione relativi alle questioni di sostenibilità, per i membri dell’organo amministrativo e dell’organo di controllo;
• la descrizione de (i) la politica di due diligence sulla catena del valore (fornitori e altri stakeholders della società); (ii) i PAI (principal adverse impacts) individuati, e (iii) le misure adottate per monitorare e prevenire tali impatti negativi, in linea con quanto stabilito dalla CSDDD – Corporate Sustainability Due Diligence Directive;
• la descrizione dei principali rischi in materia di sostenibilità cui l’impresa è esposta;
• gli indicatori pertinenti adottati per comunicare le suelencate informazioni.
L’obbligo di redigere la rendicontazione di sostenibilità si applica progressivamente nel tempo: così, se gli enti di interesse pubblico e le società quotate di maggiori dimensioni con un numero medio di dipendenti occupati durante l’esercizio superiore a 500 – e già soggetti agli obblighi di cui alla NFRD – sono tenuti a conformarvisi fin dal primo gennaio di quest’anno (con riferimento al report di sostenibilità che sarà predisposto l’anno prossimo per l’esercizio in corso), dal primo gennaio 2025 saranno invece obbligate anche le grandi imprese (anche non quotate) con un numero di dipendenti inferiore a 500, in relazione al report di sostenibilità che sarà predisposto nel 2026 e, dal primo gennaio 2026 (in relazione al report che sarà preparato nel 2027), anche le PMI quotate.
Il Regolamento UE sui Rating ESG
Con la CSRD, le informazioni tratte dalla rendicontazione di sostenibilità non soltanto assumono dignità e rilevanza analoghe a quelle di natura finanziaria, ma, soprattutto, in ragione della uniformità della loro rappresentazione e comparabilità, consentiranno di essere impiegate e rielaborate dalle agenzie specializzate nella fornitura di rating ESG, in base al nuovo Regolamento in materia (di cui si attende ora la pubblicazione in Gazzetta ufficiale dell’UE e che troverà poi piena applicazione 18 mesi dopo la sua pubblicazione).
L’obiettivo perseguito da tale Regolamento è quello di rendere i rating di sostenibilità più trasparenti e confrontabili, valutando l’impatto aziendale sulla società e sull’ambiente e assoggettando le società che elaboreranno i rating ESG alla vigilanza dell’ESMA, al fine di rafforzare la fiducia degli investitori negli strumenti finanziari e nelle aziende sostenibili. Il Regolamento sui Rating ESG è concepito per disciplinare l’emissione, la distribuzione e la pubblicazione dei rating ESG, ma non intende regolamentarne l’uso.
Indipendentemente dai modelli di business alternativi adottati dai fornitori di rating (“issuer-paid” o “user-paid”), rispetto ai quali il Regolamento è agnostico, i rating ESG dovranno rispettare obblighi di trasparenza, con specifico riferimento alla metodologia impiegata e alle fonti di informazione utilizzate ed elaborate. Nel caso in cui le agenzie di rating ESG siano stabilite al di fuori dell’UE, al fine di operare nel territorio dell’Unione dovranno ottenere l’avallo dei loro rating da parte di un fornitore di rating ESG comunitario, un riconoscimento basato su un criterio quantitativo oppure essere incluse nel registro UE dei fornitori di rating ESG sulla base di una decisione di equivalenza.
Alla luce dell’impianto normativo cui si è fatto cenno (D. Lgs. di recepimento della CSRD e Regolamento sui Rating ESG) ci si potrebbe interrogare a questo punto se un’impresa che, nell’ambito della propria attività (e rappresentata all’interno della relativa rendicontazione), implementi più efficacemente i fattori di sostenibilità e, pertanto, ottenga un miglior rating ESG, possa essere considerata anche più solida finanziariamente.
Un recentissimo Occasional Paper pubblicato dalla Banca d’Italia ha esaminato un campione rappresentativo di tutte le imprese non finanziarie comunitarie comprese nell’indice Eurostoxx 600 tra il 2014 e il 2022, rilevando una correlazione inversa tra i (migliori) profili di sostenibilità e la loro (minore) probabilità di default, e dunque offrendo un primo, importante supporto statistico alla risposta in senso affermativo a tale quesito.
La COP 29
Pur essendo all’avanguardia della regolamentazione ESG, naturalmente l’Unione Europea non può risolvere da sola le questioni ambientali, sociali e di governance, di per sé produttrici di esternalità a livello globale. Al contrario, come la crisi dell’automotive sta dimostrando nel cuore d’Europa, in questi giorni nel nostro continente è più che mai acceso il dibattito se gli slanci green non siano eccessivamente ideologici e se, in un contesto di bassa crescita e produttività, l’ambiziosa agenda della transizione ecologica non rischi di determinare impatti dirompenti, e, in definitiva, socialmente insostenibili, sull’attuale assetto produttivo.
Se l’impegno economico per finanziare la trasformazione delle infrastrutture industriali è già oneroso per i Paesi più avanzati, ci si può figurare come le sfide imposte dal surriscaldamento climatico globale risultino improbe per i Paesi in via di sviluppo (PVS). Proprio a tal fine, la negoziazione più laboriosa della COP 29 ha riguardato la definizione del New Collective Quantified Goal (NCQG), che rappresenta l’impegno finanziario dei Paesi industrializzati per supportare la gestione della crisi climatica da parte dei Paesi più poveri dopo il 2025.
Le rivendicazioni dei Paesi post coloniali in termini di giustizia climatica si sono così qualificate come istanze di “finanza climatica”, con l’istituzione di un fondo multilaterale di compensazione e per il finanziamento delle misure di mitigazione e adattamento al riscaldamento climatico globale. Da qui le prolungate negoziazioni sulle somme da destinare al NCQG, importi infine determinati in 300 miliardi di dollari USA all’anno, a fronte delle richieste dei PVS per oltre 1.000 miliardi (triplicando, in ogni caso, l’ammontare precedente e con il più ambizioso obiettivo di raggiungere 1,3 trilioni di dollari entro il 2035, mobilitando, in prospettiva, l’impegno di tutti gli Stati - PVS compresi, ma solo “su base volontaria” - nonché finanziamenti anche da parte degli istituti multilaterali di sviluppo, di altri intermediari finanziari e, più in generale, del settore privato).
Come nelle situazioni definite “non cooperative”, secondo la teoria dei giochi, la fatica di tali trattative multilaterali, che ha costretto le parti negoziatrici a prolungare le discussioni di 48 ore oltre la data stabilita per la fine della Conferenza e concluse con un compromesso considerato insoddisfacente da molti osservatori, evidenzia la complessità di finanziare la transizione ecologica a livello globale.
Non solo: la difesa ad oltranza di determinati interessi particolari, con la divisione tra Paesi industrializzati e PVS, si è ribaltata su altri tavoli di negoziazione della COP 29, quale il Mitigation Work Programme (MWP), in cui i Paesi più poveri hanno osteggiato l’inserimento nel testo finale di precisi ed espliciti obiettivi di mitigazione dell’aumento della temperatura media globale.
Il risultato della COP 29 probabilmente più soddisfacente è rappresentato, in attuazione dell’articolo 6 dell’Accordo di Parigi, dalla definizione delle regole per lo scambio bilaterale volontario tra gli Stati di crediti di carbonio e dai progressi verso l’istituzione di un’infrastruttura centralizzata globale dei mercati delle emissioni di carbonio, cui potranno partecipare Paesi ed aziende.
In conclusione
La presente breve rassegna dei recenti sviluppi normativi in materia ESG offre la chiara rappresentazione di come, da un lato, Unione Europea e resto del mondo viaggino a velocità molto diverse nell’elaborazione del complesso impianto di regole atte a contrastare le indifferibili problematiche di sostenibilità (in primis, ambientale) e, dall’altro lato, come sia difficoltoso e controverso conciliare questioni climatiche e sociali, sia nell’ambito della stessa UE sia, nell’arena globale, tra Paesi industrializzati e PVS.