Comunitario e Internazionale

Reddito di cittadinanza, requisito della residenza al vaglio della Corte Ue

di Enrico Traversa

La legittimità della condizione di residenza di dieci anni in Italia ai fini della concessione del reddito di cittadinanza al vaglio della Corte di giustizia Ue. Due ordinanze di rinvio del tribunale di Napoli.

Il punto è se il permesso di soggiorno di lungo periodo corrisponda o meno al requisito dei dieci anni. E il presuposto è la direttiva europea che gli Stati membri possono limitare la parità di trattamento in materia di assistenza sociale alle prestazioni essenziali, ma tale facoltà di deroga può essere invocata, secondo quanto precisato dalla Corte di giustizia soltanto quando le autorità di uno Stato membro abbiano dichiarato espressamente di volersi avvalere di tale deroga, volontà che le autorità italiane non hanno mai espresso

Il problema della compatibilità con il diritto europeo del requisito della residenza per dieci anni in Italia ai fini della concessione del reddito di cittadinanza (Rdc) - com’era largamente prevedibile (si vedano “Il Sole 24-Ore” del 24 aprile 2019 e del 3 dicembre 2020) - è stato sottoposto da un giudice italiano al giudizio della Corte di giustizia Ue.

Con due ordinanze di rinvio (cause C-112/22 e C-223/22) il tribunale penale di Napoli ha infatti posto ai giudici europei varie questioni pregiudiziali di interpretazione di norme Ue in relazione all’articolo 7 del Dl 4/2019 istitutivo del Rdc, che punisce con la reclusione da due a sei anni «chiunque, al fine di ottenere il beneficio (Rdc)…, rende dichiarazioni false».

All’origine dei due procedimenti penali avviati dalla Procura di Napoli vi sono le domande di concessione del Rdc presentate da due cittadini di paesi extra-Ue i quali al momento della presentazione della domanda stessa non sono risultati, a seguito di controlli dell’Inps, residenti in Italia da almeno dieci anni così come prescritto dall’articolo 2 del Dl 4/2019.

Essendo tali richiedenti extracomunitari titolari di un «permesso di soggiorno di lungo periodo» regolato dalla direttiva 2003/109/Ue, il tribunale di Napoli ha chiesto alla Corte di giustizia l’interpretazione della disposizione direttamente rilevante nei due procedimenti penali, ovvero l’articolo 11 della direttiva stessa, il cui paragrafo 1 dispone che «il soggiornante di lungo periodo gode dello stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda: d) le prestazioni sociali, l’assistenza sociale e la protezione sociale ai sensi della legislazione nazionale».

È vero che sulla base del paragrafo 4 dello stesso articolo 11 «gli Stati membri possono limitare la parità di trattamento in materia di assistenza sociale alle prestazioni essenziali». Tuttavia tale facoltà di deroga può essere invocata, secondo quanto precisato dalla Corte di giustizia (sentenze C-571/10, pagina 86 e C-303/19, pagina 23, su rinvio proprio di giudici italiani), soltanto quando le autorità di uno Stato membro abbiano dichiarato espressamente di volersi avvalere di tale deroga, volontà che le autorità italiane non hanno mai espresso.

In ogni caso, anche se un futuro governo italiano intendesse avvalersi di tale deroga, tale facoltà gli sarebbe ormai preclusa dalla giurisprudenza europea, dato che la Corte di giustizia ha chiaramente affermato, in primo luogo, che devono essere considerate prestazioni essenziali quelle che «permettono all’individuo di soddisfare le sue necessità elementari come il vitto, l’alloggio e la salute» (C-571/10, pagina 92) e in secondo luogo, che gli Stati membri sono vincolati dall’obbligo di rispettare «il diritto all’assistenza sociale volto a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti», sancito dall’articolo 34 della Carta dei diritti fondamentali (Cdf) dell’Ue.

Soggiornanti di lungo periodo

È dunque evidente che il Rdc rientra in pieno in questa definizione di “prestazioni essenziali” che non possono in alcun modo essere negate ai “soggiornanti (extracomunitari) di lungo periodo” tutelati sia dalla direttiva 2003/109/Ue, che dalla stessa Cdf.

Quanto all’effetto discriminatorio del requisito di dieci anni di residenza in Italia ai fini della concessione del Rdc, la Corte di giustizia ha costantemente qualificato una condizione di residenza prevista dalla legislazione di uno Stato membro come una discriminazione indiretta fondata sulla nazionalità e di conseguenza contraria al diritto Ue, in quanto «il più delle volte i non residenti sono cittadini di altri Stati membri» (C- 224/95, p. 14) o, come nelle due cause in esame, cittadini extracomunitari.

La semplice residenza

Va tuttavia ricordato anche che una semplice condizione di residenza è stata ritenuta dagli stessi giudici europei giustificata ai fini dell’attribuzione di prestazioni di natura assistenziale in ragione della duplice esigenza di un «collegamento reale e sufficiente» fra il richiedente e lo Stato membro di accoglienza (C-503/09, pagine 89 e 103) e di un «controllo della situazione professionale e familiare» dei beneficiari della prestazione assistenziale (C-406/04, pagina 41).

Al contrario la Corte di giustizia non ha mai ammesso alcuna causa di giustificazione per un requisito di residenza che, come nel caso del Rdc, è accompagnato da un’ulteriore condizione di durata minima di detta residenza nello Stato membro di accoglienza dello straniero (C-122/84 relativa al Minimex belga, il precedente più simile al Rdc).

È pertanto l’ulteriore condizione di durata di dieci anni della residenza in Italia che risulta in totale e non giustificabile violazione della direttiva Ue sui «soggiornanti di lungo periodo».

Con il suo ultimo quesito il tribunale di Napoli ha posto infine alla Corte di giustizia il problema specifico della compatibilità con il diritto Ue della sanzione penale prevista dall’articolo 7 del Dl 4/2019 per coloro che, come gli imputati nei due procedimenti, hanno falsamente dichiarato di risiedere in Italia da più di dieci anni.

La risposta si trova nelle precedenti sentenze Ue C-389/95 e C-338/04, nelle quali i giudici europei hanno affermato il principio secondo il quale dall’illegittimità della disposizione nazionale “principale” (la condizione di residenza di dieci anni) per incompatibilità con il diritto dell’Unione, discende ipso iure l’illegittimità della norma nazionale “accessoria” che prevede la sanzione per violazione della prima.

Parola al Gup

Essendo il requisito della residenza in Italia per almeno dieci anni in aperto contrasto con l’articolo 11.1. d) della direttiva 2003/109/Ue, l’inapplicabilità dell’articolo 2 del Dl 4/2019 fa venir meno - per usare le parole testuali del Gup di Napoli - la rilevanza penale della dichiarazione non veritiera sanzionata dall’articolo 7 dello stesso Dl e «la pronuncia di questo giudice potrebbe dunque convertirsi da una condanna, in un’assoluzione perché il fatto non è previsto dalla legge come reato».

Questo è un magnifico esempio di come l’applicazione di una norma legislativa dell’Unione e la simmetrica disapplicazione di una norma di legge italiana palesemente incompatibile con la prima, può cambiare radicalmente l’esito di un processo. In conclusione, a seguito dei due rinvii pregiudiziali del tribunale di Napoli, l’articolo 2.1.a) del Dl 4/2019 con la sua discriminatoria condizione di residenza decennale in Italia, ha i giorni contati.

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