Reintegra “attenuata” contro il licenziamento con motivazione mancante o carente
Se dal vizio motivazionale deriva l’impossibilità di individuare la giusta causa o il giusto motivo - organizzativo o disciplinare - cioè la sussistenza del fatto per cui avviene il recesso non è sufficiente la sola tutela risarcitoria
La Corte di cassazione ha affermato la necessità della tutela più ampia del lavoratore - cioè la reintegrazione cosiddetta “attenuata” nel posto di lavoro - nel caso di licenziamento fondato su un fatto di cui non sia possibile acclarare la sussistenza a causa della mancanza o dell’assoluta genericità della motivazione addotta dal datore di lavoro al proprio atto di recesso. I giudici di legittimità offrono il proprio intervento nomofilattico in una delle ipotesi di illegittimità del licenziamento verificatosi in aziende con più di 15 dipendenti. L’insussistenza del fatto che dovrebbe giustificare il licenziamento del lavoratore va risolto dal giudice del lavoro applicando il comma 4 e non il comma 6 dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Con la sentenza n. 9544/2025 la sezione Lavoro della Cassazione civile ha infatti ritenuto di dover esprimere un apposito principio di diritto per risolvere il caso sottoposto alla sua attenzione: “In tema di vizi della motivazione del licenziamento, nel regime delle imprese con più di 15 dipendenti, la mancata o generica individuazione del fatto non integra una mera violazione formale ma, poiché impedisce che si possa pervenire alla stessa identificazione del fatto, che, pertanto, dovrà essere dichiarato insussistente dal giudice, ha una ricaduta sostanziale che determina l’illegittimità originaria del licenziamento, con applicazione della reintegra attenuata di cui all’articolo 18, quarto comma, della legge 300/1970”.
Il caso riguardava un titolare di partita Iva che lavorava per più compagnie assicurative committenti e che in sede di reclamo contro il licenziamento subito da quella con cui aveva raggiunto il maggior volume di introiti pari a circa l’85 per cento, era stato di fatto inquadrato dai giudici aditi come collaboratore coordinato e continuativo data l’assenza di un progetto fissato dal datore di lavoro. Da cui era scaturita la sola tutela indennitaria, ma nella misura massima di 12 mensilità commisurate alla retribuzione globale di fatto percepita dal lavoratore licenziato. I giudici di merito a differenza dell’attuale sentenza di legittimità non avevano dato rilievo al grave vizio motivazionale posto alla base del licenziamento che non consentiva di appurare e valutare il fatto presupposto.
In primis, vi era stato anche il problema - avanzato anche in sede di legittimità dalla compagnia assicuratrice condannata a risarcire il lavoratore - della possibilità per il giudice di convertire il rapporto di lavoro in rapporto di subordinazione che giustifica la possibilità di conversione del contratto di lavoro. Il lavoratore era infatti iscritto nel ruolo dei periti assicurativi circostanza che però i giudici hanno escluso che fosse di ostacolo all’applicazione della tutela più ampia contro un licenziamento invalido. A differenza degli iscritti a ordini e albi professionali. Gli iscritti in ruoli incontrano infatti il solo limite che nei loro confronti non può applicarsi la presunzione di parasubordinazione, con eventuale conversione del rapporto, mentre opera pienamente quella di subordinazione con il conseguente diritto a vedersi riconoscere anche formalmente il reale rapporto di lavoro intrattenuto con il proprio datore.
Non vi è dubbio infatti che nella stessa ipotesi di carenza di motivazione - di cui si discute pacificamente in questo giudizio - manchi in pari tempo anche la ragione giustificativa del licenziamento, con applicazione della tutela di cui al quarto comma dell’articolo 18, atteso che in tale ipotesi, non è possibile procedere neppure alla identificazione di alcun fatto (disciplinare o organizzativo).
Infine la Cassazione ricorda che nel caso concreto dove mancava ab origine qualsiasi giustificazione al licenziamento non era possibile applicare neanche la previsione del sesto comma dell’articolo 18 della legge 300/1970 dove prevede che “sulla base della domanda del lavoratore” il giudice potrebbe accertare che vi è anche “un difetto di giustificazione” del licenziamento, in quanto solo di una giustificazione che risulti almeno delineata nell’atto può accertarsi il difetto.
La Corte nell’accogliere il motivo incidentale del lavoratore dichiara assorbita la lamentela sulla mancata corresponsione dell’indennità di mancato preavviso in quanto viene asserita la sussistenza di un rapporto di lavoro in essere.
Collegato lavoro, prime indicazioni operative del Ministero
di Carlo Pisani, Federico Pisani, Emanuela Carnevali*