Lavoro

Repechage, storia di un istituto “camaleontico”

Se è certa l’esistenza dell’onere di repechage, assolutamente camaleontici sono i suoi confini, e le pronunce giurisprudenziali registrate negli ultimi 12 mesi lo hanno dimostrato

Justice and Law concept. lawyer working at courtroom.

di Simone Carrà*

Il repechage. Storia infinita di un istituto di origine giurisprudenziale che è un vero e proprio campo di battaglia dove diritto del lavoro e libertà di impresa si scontrano quotidianamente.

L’ultimo episodio di questa saga, costituito dall’ordinanza n. 1364 del 20 gennaio 2025, non avrebbe troppo da dire di per sé, riprendendo arresti giurisprudenziali già esistenti e consolidati, ma è comunque importante perché rallenta e ridimensiona un rimuginio interpretativo che aveva da ultimo toccato picchi tanto elevati quanto controversi.

Ed infatti, se ancora fino a pochi anni fa autorevoli commentatori potevano ancora spingersi a sostenere perfino l’estraneità del “ripescaggio” all’ordinamento giuslavoristico italiano, oggi una tale tesi non potrebbe neppure essere proposta.

E ciò non tanto perché lo scorso anno la Corte Costituzionale ha, con sentenza additiva n. 128 del 16 luglio 2024, manipolato il disposto normativo “positivizzandoper la prima volta quello che prima era un istituto di derivazione puramente giurisprudenziale (tranne che nel caso dei lavoratori divenuti inabili allo svolgimento delle mansioni per infortunio o per malattia), peraltro chiarendo una volta per tutte, come era auspicabile, che, non essendo il repechage elemento costitutivo del giustificato motivo oggettivo, resta “estranea” alla verifica sull’(in)sussistenza del fatto materiale “ogni valutazione circa il ricollocamento del lavoratore”. Per dirla in termini più semplici: la violazione del repechage non potrà, di per sé, portare al reintegrazione.

La ragione tuttavia è un’altra: il repechage oggi è istituto di pacifica applicazione da parte della giurisprudenza italiana.

Se certa è (oggi) l’esistenza dell’onere di repechage, assolutamente camaleontici sono i suoi confini, e le pronunce giurisprudenziali registrate negli ultimi 12 mesi lo hanno dimostrato.

L’apice è stato raggiunto con la pronuncia della Corte di Cassazione n. 18904 del 10 luglio 2024, che ha statuito che viola il repechage il datore che non tenta la ricollocazione in mansioni inferiori (non solo sotto il profilo del livello di inquadramento, ma anche della categoria di appartenenza) e perfino in posizioni temporanee per le quali è in essere un rapporto a tempo determinato.

Ma la pronuncia estiva non è certamente isolata, perché giunge all’esito di un percorso che ha visto estendere sempre più l’ambito di operatività del ripescaggio, contemplando l’onere di repechage anche in posizioni completamente diverse da quelle ricoperte dal lavoratore licenziato e perfino con trattamenti retributivi inferiori.

È chiaro che siffatte interpretazioni mettono in discussione, oltre ai limiti posti dai commi 5 e 6 del vigente art. 2103 cod. civ., lo stesso principio di (insindacabile) libertà di impresa, che piuttosto sembra cedere il passo alla tutela del lavoro, ben oltre i confini di un ragionevole bilanciamento.

Con l’ultima pronuncia, la Suprema Corte di Cassazione ha chiarito che il repechage si limita alla dimostrazione dell’inesistenza di posizioni vacanti compatibili con le mansioni del lavoratore, senza obbligo di estendere la ricerca ad altre funzioni non strettamente correlate, né si spinge a dover creare posizioni nuove o adibire il lavoratore a mansioni diverse dalle professionalità di riferimento. Inoltre, “il datore di lavoro non è tenuto a creare nuove posizioni o a modificare l’organizzazione aziendale per conservare il posto al lavoratore, ma deve dimostrare solo l’assenza di posti liberi compatibili con la professionalità del dipendente, non potendo il giudice, una volta emersa la prova della soppressione del posto, imporre al datore di mantenere una posizione di lavoro anche inferiore, poiché si sostituirebbe all’imprenditore nel compito di organizzazione aziendale che a lui compete”.

Tale ultimo arresto giurisprudenziale assume, nel contesto sopra descritto, un rinnovato interesse, in quanto, pur riferendosi a principi già consolidati ma che erano messi in discussione dagli ultimi rivoli interpretativi, sembra segnare il rientro di quell’alta marea, cui abbiamo assistito nel corso dell’anno passato (il cui picco è stato forse raggiunto con il riferimento, in una pronuncia di merito dall’eco notevole, all’inclusione dell’obbligo di formazione nell’alveo del ripescaggio), che pur suggestiva e apprezzabile nello sforzo di perseguimento delle istanze protezionistiche, rischiava di imporre dinamiche di dubbia sostenibilità di un punto di vista sistematico e peraltro di impossibile governabilità da un punto di vista pratico ed organizzativo.

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*Simone Carrà – Partner BCA Legal

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