Rettificazione di sesso - La Consulta: sul “terzo genere” intervenga il Legislatore
La Corte costituzionale, sentenza n. 143 depositata oggi, ha giudicato inammissibili le questioni sul “terzo genere” ma ha anche affermato che è irragionevole richiedere l’autorizzazione all’intervento chirurgico se la transizione è già compiuta
Importante decisione della Consulta in materia di rettificazione del sesso. La Corte costituzionale, sentenza n. 143 depositata oggi , pur riconoscendo l’esistenza di un tema di “dignità sociale” e di “tutela della salute” ha dichiarato inammissibili le questioni sollevate dal Tribunale di Bolzano sulla possibilità di prevedere, con un intervento della Corte, un “terzo genere”, oltre a quello maschile e femminile, in quanto materia che per “l’impatto generale” sul sistema normativo non può che essere oggetto di un intervento del Legislatore. Inoltre, altro passaggio molto rilevante, ha ritenuto irragionevole la necessità di una autorizzazione da parte del tribunale all’intervento chirurgico quando la transizione è già compiuta, per esempio attraverso un trattamento ormonale e un percorso psicologico.
Il caso sottoposto dall’ordinanza del Tribunale di Bolzano riguarda una persona di sesso anagrafico femminile che non si riconosce “in tale genere, né in quello maschile”, bensì in un genere “non binario”, seppure “incline al polo maschile”. Durante l’università, la persona, ha assunto un prenome maschile, dal quale “ormai si sente definita rispetto agli altri”. Le strutture sanitarie pubbliche hanno emesso una diagnosi di disforia o incongruenza di genere. A questo punto è arrivata la domanda giudiziale per ottenere la rettificazione del sesso da “femminile” ad “altro” e il cambiamento del prenome, nonché per vedersi riconosciuto il diritto di sottoporsi a ogni intervento medico-chirurgico in senso gino-androide (innanzitutto, la mastectomia).
La Corte ricorda che “non pochi ordinamenti europei”, da ultimo quello tedesco hanno riconosciuto e disciplinato l’identità non binaria. La Corte costituzionale belga, per esempio, ha censurato la delimitazione binaria, stigmatizzando l’ingiustificata disparità di trattamento fra chi sente di appartenere al sesso maschile o femminile e chi invece non si identifica in alcuno dei predetti generi (arrêt n° 99/2019 del 19 giugno 2019). Lo stesso diritto dell’Unione europea da tempo va evolvendo in tal senso, presentando moduli standard recanti alla voce «sesso» non due diciture, ma tre, «femminile», «maschile» e «indeterminato».
Al termine dell’excursus ha però affermato: “Le indicazioni che provengono dagli ordinamenti degli Stati europei e dalle Corti sovranazionali non sono tuttavia univoche”. In questo senso, la Corte EDU ha recentemente escluso che l’art. 8 CEDU ponga sugli Stati un’obbligazione positiva di registrazione non binaria, non potendosi ritenere ancora sussistente un consensus europeo al riguardo (sentenza 31 gennaio 2023, Y. contro Francia). In senso analogo si era già espressa la Corte suprema del Regno unito, a proposito dell’identificazione non binaria tramite marcatore “X” sui passaporti (sentenza 15 dicembre 2021, Elan-Cane, UKSC 56).
E ha dunque dichiarato inammissibili le questioni sollevate nei confronti dell’art. 1 della legge n. 164 del 1982, nella parte in cui non prevede che la rettificazione possa determinare l’attribuzione di un genere “non binario” (né maschile, né femminile).
Infatti, argomenta la decisione, «l’eventuale introduzione di un terzo genere di stato civile avrebbe un impatto generale, che postula necessariamente un intervento legislativo di sistema, nei vari settori dell’ordinamento e per i numerosi istituti attualmente regolati con logica binaria».
La sentenza sottolinea al riguardo che la caratterizzazione binaria (uomo-donna) informa, tra l’altro, il diritto di famiglia, del lavoro e dello sport, la disciplina dello stato civile e del prenome, la conformazione dei “luoghi di contatto” (carceri, ospedali e simili).
La Corte rileva tuttavia che «la percezione dell’individuo di non appartenere né al sesso femminile, né a quello maschile – da cui nasce l’esigenza di essere riconosciuto in una identità “altra” – genera una situazione di disagio significativa rispetto al principio personalistico cui l’ordinamento costituzionale riconosce centralità (art. 2 Cost.)» e che, «nella misura in cui può indurre disparità di trattamento o compromettere il benessere psicofisico della persona, questa condizione può del pari sollevare un tema di rispetto della dignità sociale e di tutela della salute, alla luce degli artt. 3 e 32 Cost.».
«Tali considerazioni» – conclude la Corte – «unitamente alle indicazioni del diritto comparato e dell’Unione europea, pongono la condizione non binaria all’attenzione del legislatore, primo interprete della sensibilità sociale».
Intervento chirurgico senza autorizzazione se la transizione è avvenuta - La Corte ha poi dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011, nella parte in cui prescrive l’autorizzazione del tribunale al trattamento medico-chirurgico anche qualora le modificazioni dei caratteri sessuali già intervenute siano ritenute dallo stesso tribunale sufficienti per l’accoglimento della domanda di rettificazione di attribuzione di sesso.
La Corte ha infatti osservato che, potendo il percorso di transizione di genere «compiersi già mediante trattamenti ormonali e sostegno psicologico-comportamentale, quindi anche senza un intervento di adeguamento chirurgico», la prescrizione dell’autorizzazione giudiziale di cui alla norma censurata denuncia una palese irragionevolezza, nella misura in cui sia relativa a un trattamento chirurgico che «avverrebbe comunque dopo la già disposta rettificazione».
In questi casi, il regime autorizzatorio, non essendo funzionale a determinare i presupposti della rettificazione, già verificatisi a prescindere dal trattamento chirurgico, viola l’art. 3 Cost., in quanto «non corrisponde più alla ratio legis».
Si tratta del resto di un orientamento già diffusosi presso la giurisprudenza di merito, che sovente autorizza l’intervento chirurgico contestualmente alla sentenza di rettificazione, e non prima e in funzione della rettificazione stessa (Tribunale di Padova, sezione prima civile, sentenza 17 giugno 2024, e Tribunale di Torino, sezione settima civile, sentenza 27 marzo 2024). Ed è proprio questo il caso concreto, infatti l’ordinanza di rimessione sottolinea come l’attore per rettificazione abbia «sufficientemente dimostrato – attraverso il deposito di idonea documentazione dei trattamenti medici e psicoterapeutici effettuati – di aver completato un percorso individuale irreversibile di transizione».
Anche in tal caso, quindi, “pur potendo seguire la pronuncia della sentenza di rettificazione, in funzione di un maggior benessere psicofisico della persona, l’intervento chirurgico di adeguamento dei residui caratteri del sesso anagrafico non è necessario alla pronuncia medesima, sicché la prescritta autorizzazione giudiziale non corrisponde più alla ratio legis”.