Ricettazione e violazioni commerciali per il rivenditore di beni falsamente marcati CE
L’acquisto di beni contraffatti da rivenditori non autorizzati se realizzato da operatore che vende all’ingrosso esclude l’errore di percezione attribuibile al consumatore medio e dimostra la consapevolezza dell’illecito
Il rivenditore all’ingrosso che detenga materiale in vendita con marchio contraffatto e l’apposizione di infedele dicitura “CE” commette tanto il reato di ricettazione quanto quello di frode in commercio. E l’elemento psicologico di entrambi i reati è ben derivabile dal non essere un “consumatore medio”, ma un operatore esperto del settore merceologico, proprio in ragione dell’attività economica che svolge con continuità. Ciò che esclude, ad esempio, la derubricazione del reato di ricettazione in incauto acquisto. Ovviamente una tale condotta è posta anche in violazione della tutela dei marchi determinando la commissione di altra categoria di reato contro la proprietà industriale.
Per tali motivi la Cassazione penale - con la sentenza n. 45594/2024 - ha confermato la condanna per tutti reati posti a carico del ricorrente che, invece, negava in capo a se stesso la sussistenza dell’elemento psicologico in ordine a tutte le fattispecie imputategli.
La sentenza spiega che la consapevolezza della falsità del marchio dei beni acquistati dal ricorrente è desumibile da diversi aspetti tra cui il più emergente è quello di essersi rifornito dei beni in questione da società che non rivestono il ruolo di rivenditore autorizzato per un dato prodotto. Da cui la legittima contestazione anche del reato di ricettazione, vista l’illiceità dei beni comprati consapevolmente al di fuori dei circuiti legali.
Inoltre, con la stessa condotta offensiva della tutela offerta dall’ordinamento al diritto di privativa di titolari di marchi registrati il ricorrente aveva commesso reati di natura commerciale (vendita di prodotti industriali con segni mendaci) e contro la fede pubblica (introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi). Si tratta di fattispecie penali poste a tutela del corretto andamento dell’economia e della proprietà industriale.
Oltre alla questione della contraffazione del marchio emergeva nella vicenda anche la falsa o mendace applicazione della dicitura CE sui prodotti. In effetti, dove presente, essa corrispondeva piuttosto a quella che indica la provenienza cinese dei beni ossia “China Export” e non “Comunità Europea”. Ciò che in effetti distingue le due espressioni è solo un leggero minor distanziamento tra le due lettere in quella che indica la provenienza cinese. Differenza difficlmente percepibile a prima vista dal consumatore medio, ma non da un operatore del settore commerciale. Inoltre, il regime europeo della marcatura CE è indicatore di conformità del bene a determinate caratteristiche tecniche di qualità e sicurezza e non è da solo sufficiente ad attestare la rispondenza della merce agli standard garantiti, se non è esibita a corredo la relativa documentazione. Infatti, anche la mancata esibizione di tale documentazione, attestante la conformità CE, da parte del ricorrente è stata ulteriore dimostrazione della consapevole natura ingannatoria della marcatura CE rinvenuta sui beni contraffatti. Documentazione che data l’esperienza di un commerciante questi non può ritenere irrilevante, come la sua mancanza, sapendo tra l’altro di esser tenuto a esibirla in caso di controllo.